EXPL 16: compromesso e rifiuto

Questo posto è montagnoso. Arrivo su una passerella traballante che si arrampica su un costone di roccia, il vuoto alla mia destra, la montagna alla mia sinistra. Ho in mano una catena che pietosamente è stata inchiodata alla montagna, e mi ci aggrappo con disperazione. Il paesaggio è straordinario: montagne brulle, spoglie di vegetazione, che spuntano come isole dalle nuvole basse, fino all’orizzonte. Il cielo è di una pulizia impietosa, e so che il vento, che ora sta zitto, quando parlerà farà parecchio male. Non sono preparato per una gita in alta montagna e stringo troppo la catena, già tremando. La passerella che mi sostiene è fatta di due assi di legno, inchiodate tra loro e a piccole travi spuntano dalla montagna. Guardo giù, e sto guardando davvero molto più giù. In basso c’è un’altra passerella, altrettanto sottile, percorsa da una piccola processione. Qualcuno mi batte sulla spalla, mi volto e capisco che sto fermando la coda. C’è un’infilata di uomini dalla testa di corvo, vestiti come monaci arancioni, che a gesti e gracchiate mi fanno capire che devo proseguire. Proseguo.

L’aspetto positivo è che non ci si può perdere. Quello negativo è che ho costantemente paura di fracassarmi centinaia di metri più in basso. Tengo la catena con entrambe le mani, e devo risultare piuttosto goffo a giudicare dagli schiocchi ironici dei becchi dietro di me. Non riesco a capire se mi siano ostili o abbiano solo fretta, ma vengo costantemente pungolato per andare più rapido. Ogni tanto qualche piccolissimo frammento di legno si stacca dalle assi sotto di me e cade al rallentatore. Io non cadrei altrettanto lentamente, lo so. Facciamo quattro curve e seguitiamo a salire, poi la passerella si interrompe improvvisamente ai piedi di una fessura tra le rocce. È larga quanto le mie spalle, e attraversata da una serie di barre orizzontali che vanno su, su, su. Una scala a pioli. Provo a cercare una nicchia dove nascondermi e far passare gli uomini corvo, ma non c’è spazio, e non mi viene data tregua. Devo salire.

È un mestiere faticoso, ma almeno la fatica tiene lontano il pensiero dell’altezza. Non guardo più il paesaggio e mi concentro sul prossimo passo. Issarmi costantemente, di sola forza muscolare, a ripetizione, non so per quanto. Gli uomini corvo si fanno ancora più incalzanti. Immagino che, oltre all’estetica craniale, abbiano mantenuto qualcosa dell’ascendenza aviaria, perché pare che facciano molta meno fatica di me a salire. Io le ossa cave non ce le ho, però, e sbuffo come un mantice. Le mani mi dolgono, le gambe mi dolgono, mi sto surriscaldando e spazientendo. Valuto che potrei avvantaggiarmi della posizione e dare un bel calcio al tizio che mi segue. Con un po’ di fortuna gli spaccherei il becco, per lo shock lui cadrebbe sul tizio dietro di lui, iniziando una reazione a catena di proporzioni immani. Questo è quello che mi suggerisce il mio cervello in carenza d’ossigeno, ma per fortuna arrivo in cima prima che diventi davvero convincente.

In cima c’è già un bel gruppo di uomini corvo, tutti in cerchio attorno ad un robo che non riesco a capire cos’è, che loro si accalcano e io ho il fiatone. Mi accascio e ripiglio fiato. Ora dobbiamo essere davvero in alto, fa freddo e il vento non tace per nulla. Mi lacrimano gli occhi. Intanto arriva altra gente, e dopo un po’ c’è proprio una folla. Mi riprendo e riesco a capire che a) nessuno mi degna di attenzioni, avevano solo fretta di arrivare e b) è un funerale. Il robo al centro è un parallelepipedo di rocce e legno, e sopra ci sta il cadavere nudo di un uomo corvo. Il piumaggio è opaco, la pelle cadente, la struttura complessiva è quella di un vecchio che non se la doveva passare proprio male, ma neanche poi così bene. Le mani sono segnate, i piedi rattrappiti, lo scroto spelacchiato.

Ci deve essere un qualche tipo di quota-folla, o forse la cerimonia è sincronizzata su un orologio che tutti sanno leggere tranne me. Fatto sta che un tizio tra gli astanti, vestito di arancione come gli altri, prende posto vicino alla salma e inizia a gracchiare e, grossomodo, parlare. È un suono strano, misto di corde vocali umane e corvine, e si vede che fa fatica. La lingua mi è incomprensibile. Intanto continua ad arrivare gente, ma la cerimonia ormai è avviata. Avvengono, da quel che intuisco, una serie di invocazioni verso il cielo. Molti guardano in alto, aspettandosi di vedere qualcosa. A questo punto pure io comincio ad avere le mie aspettative, e scruto l’orizzonte, le cime delle altre montagne, e le nuvole sotto di me. A volte si vede in effetti qualche sparuto volatile, nerissimo e in lontananza, così distante che non riesco a calcolarne la dimensione. Ma nessuno si avvicina mai, e la folla è attraversata da un moto di delusione. Intanto l’officiante ha finito le invocazioni, e procede senza troppe cerimonie a becchettare il morto. Non è un’operazione facile, si vede che vorrebbe usare le mani – o un coltello – ma cerca di fare di tutto per farsi bastare il becco. Dopo vari tentativi riesce a staccare un pezzettino di carne dal ventre, se lo butta in bocca e se ne va, scendendo da un’altra scalinata. Seguendo il suo esempio, tutti gli uomini corvo procedono a becchettare il morto: chi mira agli occhi, chi alle orecchie, chi al ventre. È un’operazione goffa e dominata dalla frustrazione.

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