In sintesi: come 1984, ma con i comunisti.
In meno sintesi: Zamjatin si è inventato il genere – il romanzo distopico – e per questo ha preso schiaffi. Il libro è stato scritto tra il 1919 e il 1921, quando in Russia era appeeeeena finita la rivoluzione e stava nascendo qualcosa di glorioso, liberale, florido e sereno. Che Zamjatin percula con violenza, finendo in lista nera fino a quando è costretto a emigrare – che nessuno lo pubblicava più.
L’apertura è micidiale, si osanna la bellezza della geometria, il cubo, il dominio della ragione sulla natura. Siamo in un futuro post guerra devastante e finalmente il popolo si è liberato dall’annoso problema della libertà personale. Tutto controllato, tutto inquadrato per 22 ore al giorno (ma stanno lavorando a dei piani per le ultime due). Ogni aspetto della vita delle persone è controllato e, distruggendo libertà e fantasia, si garantisce la felicità. È una sorta di buddhismo perverso: il desiderio è la causa del dolore, noi ti togliamo i desideri e tu stai felice. Oppresso, ma felice.
Il paragone con 1984 è immediato, con la differenza grossa che lì il protagonista è un ribelle. Qui le cose sono più complicate, il protagonista è un allineato, un figlio del sistema, una mente matematicissima.
Ci stanno alcuni colpi da fantascienza retrò molto pittoreschi (le auto/razzo, la città sotto la cupola, il cibo sintetico ricavato dal petrolio) e un linguaggio che fa continuo uso di metafore matematiche – ma molto accessibili, diciamo che se siete dei nerd cogliete le finezze.
La mia edizione era accompagnata da nota finale del traduttore che come da tradizione si imbroda, e ammette candidamente di aver dichiarato che questo libro è più interessante “per la forma che per i contenuti”. C’è in giro certa gente che tu gli indichi la luna e loro guardano il знак ударения.