Gli occhi non si staccano dall’orologio: guardano la lancetta dei secondi fare i suoi giri tutti uguali, quasi annoiati, superando lo stesso paesaggio di numeri al fosforo. La sveglia è di plastica, forzatamente allegra, posata su una mensola: marrone.
Nell’attesa l’attenzione è affamata di dettagli, osservare i sentieri nel legno del tavolo, immaginando i chilometri fatti da quella stessa corteccia, ancora prima quando tavolo non era ma albero, alberello, germoglio, seme e polline portato in volo incerto e nervoso da insetti gialli e neri.
I pensieri nell’attesa diventano per forza osceni, ma cerca di mantenerli, di contenere il suo calore: niente illusioni, niente delusioni. La lancetta del minuti si muove piano, prestando abbastanza attenzione la si vede passeggiare. La sedia è di legno rosso, legno dipinto di rosso come in un bar, un posto dove si trovano i vecchi a giocare a carte, a bere vino cattivo e a bestemmiare. La sedia regge il suo peso, il tavolo di legno che fu polline le sue mani senza pelle, morsicate e spogliate fino alla carne perchè non è proprio il caso di, stiamo attenti a, non credo che dovremmo più.
Valuta se fare qualcosa, se cercare di ingannarsi e distogliersi dalle lancette: calcola che quella dei secondi deve essere più lunga di un millimetro rispetto a quella dei minuti, a sua volta immensamente più lunga delle ore: fare l’amore su quel tavolo, dare un calcio non voluto alla brutta sveglia di plastica, spaccarla senza lacrime sul pavimento di piastrelle verdi, quadrate, come un bagno, come una macelleria straniera.
Ancora le lancette: le ore sono ferme, inaffrontabili e ferme, non può esistere nessuno che le abbia mai viste muoversi, le sue ore sono ferme e coperte per un istante dai secondi, belli veloci. Quella sveglia appoggiata suo suo corpo, il tic dei secondi che rimbalza nei polmoni, appoggiare l’orecchio sulla sua schiena e ascoltare i molti battiti volubili e quell’unico battito meccanico che si intrecciano, non poi così diversi.
Le piastrelle del pavimento sono separate da una linea grigia, a volte nera dove non si riesce a pulire, dove è troppo tempo che nessuno più e ora servirebbe una lama: la ceramica fu sabbia, la sabbia forse roccia e franò e uccise magari qualcuno, abbattè una capanna o grattacielo ed ora è piastrella: ci posa i suoi piedi scalzi e lascia andare il calore, ad occhi chiusi, come un regalo a quel posto, un po’ di sé al pavimento distruttore di palazzi come tributo per placare un vecchio dio; poggiare i piedi sul suo corpo, le piante bene adese alla sua pelle, prendersi con la forza il suo calore e non provare vergogna, prendersi tutto e non provare vergogna. Attesa.
I vestiti pizzicano, se ci fai caso. Se te ne dimentichi sono anonimi e puoi immaginare di avere solo la pelle glabra addosso, se ci fai caso pizzicano dappertutto: il cotone delle cuciture, il poliuretano dei bottoni, la lana della maglia. Il cotone è stato colto a mano: non esiste nessuna macchina capace di raccogliere il cotone, deve essere raccolto a mano e i lavoratori hanno la pelle di cuoio a furia di pungersi sulle spine, nelle foglie, hanno sui petali dita di cuoio che staccano bambagia e la mettono nel cesto: chissà cosa si prova, chissà se anche i loro vestiti pungono e si immaginano di stare nudi, chissà se desiderano qualcuno che non arriva e sono in attesa per quando lo vedranno e sognano cose che non ci sono per paura di.
La mensola è inchiodata al muro. È un lavoro fatto male, pende verso il centro della stanza, una piccola salita verso i mattoni: l’intonaco grigio è coperto di bianco per non costringere a guardare una parete colorata, perchè il colore dell’anonimato è il bianco ed uno può guardare la parete per minuti – lenti – e quasi non accorgersi dell’avanzare dei secondi, perchè la parete è bianca e anonima e si lascia guardare, fosse grigia attirerebbe l’attenzione ed il pensiero e le persone non perderebbero tutto il loro tempo pensando a: vuoto. Ma se fosse ancora grigia, anche senza vernice, anche senza intonaco, solo il cemento di un grigio più ruvido: avere una parete scabra e scomoda, ci finisci contro e ti graffia la pelle, un corpo può essere sollevato e appoggiato nudo contro il muro e la schiena glabra di pelle sarebbe arsa di tagli e abrasioni e forse magari sangue che cola e si raccoglie verso il coccige, quasi stillando, accoppiarsi contro il muro e contro una schiena ferita ad ogni colpo, cercando volendo potendo fare male.
Si alza di scatto, vorrebbe scuotere il capo ma poi no, che non serve, fa invece cadere la sedia alle sue spalle: braccia tese lungo i fianchi, pugni chiusi come occhi, labbra serrate una sopra l’altra. Tre passi, quasi consapevole della sedia, del tavolo e della mensola, importando solo il lento ritmo dei secondi in cerchio e sentendo solo quello, fa tre passi e apre gli occhi: guarda il citofono.
Citofono, porta, mangiacassette a terra: polvere. Vestiti, impronte, una scarpa azzurra, una finestra piccola, il letto a terra, neppure un letto: materasso macchiato ed economico con i bottoni usurati ed il lenzuolo steso per finta, per pigrizia. Fazzoletti di carta e di speranza: dovessero servire. Sedia rossa a gambe all’aria, tavolo e mensola: la sveglia è brutta, i secondi rotolano in cerchio, nervi a scintille riscaldati sobbollendo: lavandino. Bianco calcareo, silicone disperato, crepe grigioline, saponetta anemica, rubinetto incrostato e pallido, se lo riempi d’acqua e ci infili la testa potresti forse annegare. Passo, passo, mano sul rubinetto, mano che ruota, mano che si abbassa: acqua gelida come a scuola, come in prigione, come al polo: non è possibile annegare nell’acqua così fredda, il ghiaccio non ti accoglie, nemmeno per morire, il tuo cuore rallenta sentendo il bianco tutto intorno, il respiro si contrae, necessiti un tempo incredibile per annegare nel freddo, ore, forse anni, ma come si fa a resistere anni nella speranza di arrivare da qualche parte, ma senza certezze, senza risultati, solo una faccia sotto il livello del mare polare lavandino, due mani appoggiate alle coste, una schiena piegata e spezzata nell’atto infinito, come si fa a resistere anni?
Sotto il lavandino: secchio. Azzurro e di plastica, la superficie macchiata di bianco dalla chimica dei detersivi. Potrebbe contenere la tua testa, volendo. Come puoi chiedermi di sopportare tutto questo, come puoi chiedermelo ancora?
Gira la testa, guarda il cielo a quadretti, uno sprazzo di nuvole verdi attraversa il vetro e rincorre se stesso. Il dito preme il mangiacassette, le mani raddrizzano la sedia, le gambe si siedono: bisogna aspettarti, non faccio altro, non c’è altro da fare.