Il furgone si ferma in una nuvola di polvere. La strada si è trasformata: asfalto, poi sterrato, poi pista battuta e adesso, facile facile, finisce. C’è un cartello inchiodato sghembo su un albero secco. Segna la fine della civiltà. Dice proprio: fine del mondo. Da lì in avanti c’è solo deserto, per sempre, all’infinito. Così si dice in giro. Forse la geografia del mondo è diventata straordinariamente non euclidea. Forse sono solo voci. Fine del mondo.
Nel furgone ci sono un uomo e una ragazza. Lui, quasi vecchio, la faccia piena di rughe da strizzatura d’occhi, la barba corta e già grigia. Lei, magrissima, quasi deperita, sorride quieta come chi ha in tasca un coltello. A motore spento, per tacito accordo, i due passano un momento a guardare il deserto, lì davanti a loro, sassi e rocce e canyon e sabbia e infinite variazioni su un tema preciso: “Qui non c’è acqua, qui non c’è vita, qui non siete i benvenuti. Andate via”. Il cielo è un colore purissimo, straordinario, impietoso. Non guardate me, sembra dire. Non vi darò niente.
“Ancora sicura di voler andare?”
Lei risponde senza parlare, annuisce, sorride. Lui sbuffa, scende, fa il giro e apre il cassone, dietro. Lei lo raggiunge.
“Questa roba che ti do, quest’attrezzatura-” dice lui, e intanto fruga tra gli scatoloni e le casse stipate nel furgone “è tutta roba costosa, pagata e strapagata in giro, anche facendo favori, anche facendo cose brutte.” Lo dice così, senza vergogna. Tira fuori un borsone. “Te e quelli come te ci state costando parecchio.” Si ferma, la guarda, aspetta una risposta. Ma lei ha occhi solo per il deserto e, adesso, per la borsa. “Cos’hai?”
Lui sbuffa ancora. Fa un gran sbuffare, in questi mesi. “Il tuo primo problema sarà l’acqua. Sole, deserto, ti disidrati. Ma l’acqua pesa e non puoi portarti chili di provviste. Ecco qua.” Estrae un tappeto arrotolato, annodato con lo spago. Il tappeto è coperto di una finissima selva di chiodini, di plastica. “Questo è un deumidificatore portatile. Quando lo accendi quella poca umidità che c’è nell’aria passa tra le dita, qui, che si raffreddano, e l’acqua condensa e gocciola. Finisce tutto qui” indica col dito “nel serbatoio. Occhio che è acqua distillata, non puoi berla così com’è, che ti sballa gli ioni.” Tira fuori un barattolino pieno di pillole. “Fai sciogliere una di queste ogni volta che riempi il sacchetto, prima di bere. E di giorno tieni il deumidificatore aperto, sullo zaino: sul retro ci stanno i pannelli solari, che si deve ricaricare per funzionare la notte.”
La ragazza lo ascolta con attenzione. Sanno di stare parlando, senza fronzoli, di una missione suicida. Di quella che sembra essere una missione suicida. Lui le sta dando gli strumenti per rendere il suicidio lento, il più lento possibile. Per guadagnare del tempo.
“L’altra cosa che posso darti per l’acqua è questa.” Tira fuori una borraccia cilindrica, come uno di quei contenitori per tenere il caffè in caldo. “Ci devi pisciare” e l’uomo si imbarazza, stupito del suo stesso imbarazzo. Cerca di assumere un tono professionale: “Qui ci va l’orina” indica l’apertura grande, in alto “quando è pieno tienilo dritto e dopo venti minuti l’acqua buona esce da qui sotto” e indica un piccolo rubinetto, sul fondo. “Occhio che farà schifo, ma almeno è buona da bere. I filtri a nanopori trattengono l’urea, l’azoto e il calcio. Credo. Non lo so davvero. Però queste le davano agli astronauti nel caso di rientri non programmati, per farli resistere finché non li recuperavano. Dovrebbe andarti bene. Non farti illusioni, però: continua a sapere di piscio.” Lei annuisce docile, lui si spazientisce. “Trovare questa roba ci è costato parecchio, e ti terrà in piedi al massimo per qualche settimana. Sempre che non ti venga un colpo di calore prima.” L’uomo esita, indeciso su un qualche tipo confine che non si decide ad attraversare. Lei sorride: “Andrà benissimo. Mi arrangio.” Fa una pausa minuscola, indecisa. “Lo so che è difficile – da capire, da credere. E ti sono – no, non solo io, tutti, tutti noi al vivaio vi siamo grati per quel che fate. Vedrete. Siamo vicini.”
“Quanti ci hanno provato prima di te?”
“Da quando sono ricominciati i grandi sogni? Quattro. Io sono la quinta.”
L’uomo fa un fischio, ammirato e insieme scandalizzato. “Cinque oracoli! Tutti morti.”
“Dispersi. Preferiamo dire dispersi. E solo quattro. Te l’ho detto, io sono la quinta.”
“Siete preziosi, come fate a non capire che ci servite molto di più a casa, tra noi, vivi, che a morire qui!” Fa un gesto che comprende tutto: deserto, cielo, destino. “E poi la roba, tutta questa roba.”
“È un prezzo. Altissimo, lo so.” Lei sembra stringersi, rimpicciolire. “Ma è solo un prezzo. Quando avremo aperto la strada sarà tutto diverso. Vedrai che ne sarà valsa la pena.”
“E se non la trovate? Se non c’è proprio una strada?”
La ragazza lo guarda negli occhi, ma solo per un istante, poi distoglie lo sguardo. Lui ripensa a tutte le voci che ha sentito su quelle come lei. Sui lunghi sonni, sui sogni che visitano gli oracoli e che, a volte, rivelano verità e portenti. A volte.
“Hai altro per me?”
L’uomo fruga, estrae quattro tubetti di crema. Su tutti campeggia in grande la parola VERDOSUN. “Sai come funziona questa roba?” “Me la spalmo come crema solare, divento verde e faccio fotosintesi.” “Giusto. Finché dura l’effetto non ti scotti e ti fa sintetizzare ATP. Ti aiuta un po’ a stare in piedi, ma ovviamente non basterà. E con questo ho finito. Ho un po’ di provviste secche, qualche lattina. Prendi quel che vuoi.” La ragazza annuisce, sorride quieta.
Dieci minuti dopo l’uomo la guarda allontanarsi nel deserto. Un granello contro una galassia. L’uomo è seduto nell’abitacolo del furgone e pensa. Potrei ammazzarla. Tanto è già morta. Mentre la ragazza si allontana con lentezza sul terreno accidentato l’uomo accarezza sul serio l’idea. Ha un fucile. Sono lontani chilometri dal rifugio più vicino. Niente testimoni. E quella roba che le ha dato – assegnata ufficialmente, derubricata, perduta – quella roba la potrebbe rivendere al mercato nero, un po’ per volta, senza dare nell’occhio. Farci un bel gruzzolo.
Ma poi sbuffa. Le cose vanno male. Forse c’è davvero bisogno di un grammo di speranza. Almeno quello. Non si permette di sperare che lei possa avere successo. La via attraverso il deserto. La terra promessa. La fuga dalle sofferenze. No, quello no. È troppo. Ma sperare serve. Ad altri, alla gente. Sapere che c’è un piano, che qualcuno ci sta provando. Le cose vanno male, dappertutto. Troppi nemici, troppa miseria. Scuote la testa, sorride, fa un cenno di saluto alle spalle della ragazza, sempre più lontane. Lei, senza voltarsi, alza un braccio e risponde al saluto. Poi lui mette in moto il furgone e se ne va.