Lettere da Malu Malu #4: sperando in un cambio della fortuna

GIORNO 2

Luminosissimo maestro,

vi scrivo alla sera del nostro secondo giorno: ieri abbiamo gettato l’ancora presso Malu Malu, ieri notte abbiamo subito il tremendo attacco da parte dei nativi che è costato la vita a quattro dei trenta membri dell’equipaggio.

Attacco. Ho usato questa parola con proprietà? È una parola facile, chiara, salvifica. Soprattutto salvifica: porta con sé l’assoluzione, non siamo stati negligenti, siamo stati attaccati. Io, sopra ogni altra cosa, non mi sono comportato come il più ingenuo tra i mozzi: no, per niente, sono invece caduto nel tranello nel nemico. Il mio cuore vorrebbe crederlo. Vorrei potermi convincere con la stessa facilità con cui scrivo quest’altra parola: nemico.

Questa mattina, con grande alacrità, si sono svolte le operazioni di sbarco. Gli uomini hanno lavorato cupi, col cuore pesante, continuando a lanciare occhiate nervose verso mare e isola. Ma l’isola pareva deserta e il mare era calmo. È stata messa in uso la scialuppa, e posso finalmente scrivere con i crismi dell’ufficialità che abbiamo guadagnato la terra ferma. Credo a questo punto di dover tentare almeno una descrizione dell’isola e della sua costa, per permettervi di seguire al meglio la vicenda, ma già devo appellarmi alla vostra pazienza: mappare, e con precisione, le coste e l’interno di questo sasso colorato è parte della mia missione, come voi ben sapete. Le mie saranno le prime vere e proprie mappe e, piacendo al destino, serviranno a future spedizioni.

Da una prima stima posso dire che l’isola non può essere larga più di dieci o dodici leghe – ma badate che non l’abbiamo ancora circumnavigata, e se si rivelasse di forma straordinariamente irregolare – moltissimo stretta o, al contrario, profondissima – questa mia stima si rivelerebbe sghemba. D’altra parte stando ai racconti di Lumaccio e Perdigote l’isola è all’incirca tonda, quindi vi comunico questo numero con una certa sicurezza (per quanto i racconti di questi due antichi esploratori siano da prendere con cautela).

L’isola presenta, per quel che abbiamo visto, una magnifica e impervia costa rocciosa, che sarà di certo il primo degli ostacoli da superare. Le scogliere, di un bel color porpora, sono alte centinaia di braccia, e calano verticali sul mare. Non dovete però immaginare dei muri di palazzo, giacché a parte il colore insolito mostrano tutte le corrugatezze e le fratture delle rocce naturali. Esse hanno però il piede vuoto, e incontrano il mare con un insieme di fori, caverne e aperture costantemente slavati dalle onde. I flutti, frustando la roccia e intrappolando l’aria, producono suoni peculiari, come i muggiti e i respiri di un grande animale.

Ma non tutti i bordi dell’isola – per fortuna – paiono essere così inaccessibili. Ieri il capitano Tirso ha gettato l’ancora in una caletta in cui, ai piedi della scogliera, c’è una piccola spiaggia di sassi. Ed è lì che oggi siamo sbarcati. Doveva essere un affare veloce – forse una tradizione marittima, o il capitano voleva segnare il cambio di passo e dare alla ciurma un po’ di respiro. È stata calata la scialuppa e, a forza di remi, una dozzina di marinai sono sbarcati. Io avrei voluto partecipare, ma mi è parso di capire dai mugugni di Maestro Filippo che la mia presenza era richiesta sulla caravella. Ho quindi osservato lo svolgersi degli eventi dal mare. A guidare il piccolo drappello c’era Moliabre, il secondo del capitano.

Lo sbarco è avvenuto senza contrattempi, ma poco dopo una qualche concitazione si è impadronita del piccolo gruppo. Osservandoli tramite il cannocchiale è stato subito chiara la causa della loro agitazione: i marinai avevano trovato un corpo, poi identificato come Manfreduccio, una delle quattro vittime dell’attacco di ieri notte. Poco dopo la scialuppa rientrava.

Per amore di decenza preferirei soprassedere i dettagli sullo stato del corpo, ma è mio compito e onere non tacere nulla di quanto incontrerò in questo viaggio. Manfreduccio, gonfio e scolorito, recava mille ferite, nessuna delle quali poteva dirsi letale. Parevano, in ogni aspetto, morsi umani. Morsi dati con violenza ferina, tanto da lacerare la pelle in più punti e generare tracce viola e nere, eppure nessuna di queste ferite avrebbe potuto togliergli la vita. Il corpo aveva la mollezza che solo il mare sa donare, e chi l’ha raccolto ha riferito come sollevandolo abbia perso una grande quantità di acqua mista a sangue da bocca e naso. Tutto pare indicare, insomma, che Manfreduccio sia morto annegato.

Il corpo era nudo. Dettaglio non trascurabile: per quanto lui e i suoi tre sfortunati compagni si fossero in parte spogliati, pare a tutti che indossasse ancora le brache al momento del tuffo. Potrebbe averle perse, ovviamente. Manfreduccio potrebbe essere stato spogliato da quelle stesse correnti che ne hanno adagiato il corpo, con cura, sull’unica spiaggia accessibile ad un nostro sbarco. Oppure, va da sé, potrebbe essere stato il nemico. Il nemico l’ha ucciso, spogliato, e adagiato in bella mostra, per farcelo trovare e così parlarci senza profferir parola.

Abbiamo celebrato per Manfreduccio e i tre dispersi una breve commemorazione. Mi è stato chiesto di recitare una preghiera – immagino di essere, agli occhi della ciurma, il più simile ad un prete tra i presenti a bordo. Ho fatto del mio meglio, ma temo che la mia angoscia si sia percepita. Maestro Filippo non era già più presente: dopo aver gettato un’occhiata sul corpo di Manfreduccio si è ritirato nella sua cuccetta, da cui non è più uscito.

Dopo la preghiera il corpo è stato avvolto in pochi stracci, zavorrato e gettato fuori bordo. Si era brevemente discussa la possibilità di farne una pira, sulla spiaggia, ma ormai tutti guardiamo l’isola con diffidenza, e la nostra voglia di calcarne le coste si è molto ridotta. La caravella ci pare più sicura.

Nel pomeriggio un’altra spedizione è andata alla spiaggia, portandone una descrizione precisa, seppur desolante. Lunga tra le cento e le centocinquanta braccia ma profonda poco più di dieci, è una semplice striscia di ghiaietto porpora proveniente dalla frantumazione delle scogliere e accumulato in quest’ansa della costa a causa delle bizzarrie delle correnti. Non vi è traccia di vegetazione autoctona, e vi si trovano solo alghe spinte dalla risacca. È sicuramente un punto protetto, e sulla terraferma, ma poco più di questo: difficile che nasconda la chiave per dischiudere i segreti dell’isola.

Domani inizieremo a perlustrare la costa, sperando in un cambio della fortuna.

Servo vostro,

L.

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