Lettere da Malu Malu #6: come esulta la balestra

GIORNO 8

Luminosissimo maestro,
vi scrivo oggi, ottavo giorno dopo il nostro arrivo a Malu Malu, e a cinque giorni di distanza dalla mia ultima lettera. Ricorderete l’eccitazione nelle mie parole: mastro Filippo aveva dichiarato che il giorno dopo avrei scalato la scogliera di Malu Malu. La notizia si era sparsa veloce, e io sentivo assieme il peso e l’esaltazione della responsabilità. Vi basti sapere che vi scrivo oggi, a cinque giorni di distanza, perché solo ora sono guarito abbastanza da poter tenere in mano la penna e, con una certa fatica, tracciare queste poche parole. Il mio compito è stato svolto, in qualche modo, ma non certo con pulizia e grazia. Ma pazientate e seguitemi, che raccontare le cose con ordine mi aiuterà a chiarire i miei stessi pensieri.

La mattina del quarto giorno (ho deciso, per brevità e chiarezza, di fare riferimento solo al numero di giorni dall’arrivo, ma voi potete con facilità ricostruire la data precisa conoscendo la partenza e la durata del nostro viaggio dalla patria a Malu Malu – due mesi, o, per la precisione, sessantatre giorni) mi sono svegliato alle primissime luci dell’alba, eccitato, spaventato, felice. Quel giorno avrei Comandato, e così facendo avrei dimostrato a tutti la caratura del mio animo. Sentivo che molte cose erano in palio: l’opinione che maestro Filippo aveva di me, il rispetto che la ciurma mi tributava, ma soprattutto il mio cuore, il mio cuore si sarebbe potuto alleggerire. Mi accompagnava l’immagine del povero Manfreduccio, coperto di morsi e incrostato di salsedine, avvolto in un cencio e gettato a mare come una zavorra. Mi sentivo responsabile per l’accaduto e avevo bisogno di riscattarmi. Ne ho ancora bisogno, temo.

È con questo cuore carico di emozioni che mi sono apprestato alla prova. Già vedete il mio errore. Lucidità. Fermezza. Orgoglio. Proprio nel giorno in cui sono chiamato a praticare l’Arte finisco per non seguirne i precetti. Orgoglio, quello sì, sempre. Ma dov’era la Fermezza mentre mi tremavano le mani per l’anticipazione? E dove la Lucidità se non mi sono accorto di quanto le emozioni mi stessero travolgendo?

Come ricorderete, avevamo montato un campo sull’istmo. Poco dopo l’alba uscii dalla tenda per guardare la scogliera, purpurea, rosa e lilla, verticale come una squadra, imponente contro il cielo cobalto. Il mare, sotto, batteva contro il piede di Malu Malu e produceva il solito mugghiare. Ho consumato una colazione leggera e, circondato da marinai che fingevano di non guardarmi, mi sono messo ad aspettare maestro Filippo. Sfortuna volle che il primo a parlarmi fu invece Moliabre, il secondo del capitano. Mi arrivò alle spalle, mentre cercavo di indovinare quale percorso intraprendere per la scalata.
«Cadrai.»
Solo questo, mi disse solo questa parola. Gli rivolsi uno sguardo rabbioso, a cui lui rispose sogghignando. Poi se ne andò, lasciandomi ancora meno sereno e concentrato di prima.

Arrivarono mastro Filippo e capitano Tirso, sulla scialuppa. Entrambi tuttora preferiscono dormire a bordo della caravella: il capitano per non rinunciare alla comodità della sua cuccetta, il maestro per ostilità verso il mondo.
A questo punto nessuno aveva davvero più motivo per fingere disinteresse e si formò un capanello, con me e maestro Filippo al centro e tutta la ciurma attorno, a qualche passo di distanza. Ma fu il capitano a parlare: «Cani! Oggi vedrete a qualcosa di eccezionale! Adesso aprite bene gli occhi o ve li cavo! Oggi, parola mia, ci sarà uno spettacolo!»
Adesso, mentre scrivo queste parole, mi chiedo cos’avrà voluto davvero dire il capitano. Si riferiva alle azione eccezionali di un praticante dell’Arte, certo, ma c’era forse dell’altro? Si aspettava che le cose andassero diversamente? O che andassero esattamente come sono andate? Voleva incoraggiarmi? Voleva rubare parte del credito? È pur vero che con lo sbarco la sua autorità è in parte sminuita: sulla terraferma siamo io e maestro Filippo in cima alla catena di comando.

Mentre il capitano si lanciava in queste e altre invettive maestro Filippo mi preparava. Mi fece inginocchiare e cavare la casacca. Sentii i marinai borbottare egualmente di scherno e di stupore alla vista della mia costituzione flebile, decisamente poco adatta a una grande prova di forza come quella che era stata loro promessa. Immagino che per il pubblico la mia gracilità contribuisse a rendere più avvincente la circostanza. Io cercai di non prestare loro attenzione.

Venne il momento di indossare la gorgiera. Avevo preparato la mia, di cuoio e legno, che voi ben conoscete, ma maestro Filippo era intenzionato a fare le cose con grande cura. Volle fornirmi lui di una sua gorgiera d’acciaio lucidissimo. È un pezzo d’artigianato notevole, composta da due parti metalliche a forma di C che si allacciano tramite cinghie di cuoio sopra ciascuna spalla e sotto ciascun braccio, cosìcchè la gorgiera stessa risulti molto solidamente fissata. Le parti metalliche sono sagomate in modo da seguire la forma di un uomo appena più robusto di me, e ovviamente la parte anteriore contiene l’alloggiamento per l’uovo spirituale.

Maestro Filippo aveva con sé anche una cassetta in legno chiaro, che posò a terra con grande cura. Indossò dei guanti di finissima pelle e sfilò il coperchio con attenzione. Lì, circondati da bambagia, stavano tre involti. Prese quello di sinistra, richiuse la scatola e tornò a riporla nel borsone che portava a tracolla. Poi, con estrema attenzione, iniziò a rimuovere i panni che, io sapevo, avvolgevano l’uovo.

La cautela dei gesti di maestro Filippo fece calare il silenzio tra la ciurma. La scena aveva insieme del solenne e del comico: venti e più lupi di mare, uomini rotti ad ogni difficoltà, che portavano sul corpo parimenti i segni delle avventure e delle disavventure vissute, quegli stessi uomini ora trattenevano il fiato davanti a due gracili sapienti che maneggiavano pietre preziose. Perché è così che deve essere parso loro, l’uovo spirituale. Una pietra preziosa, di cui forse intuivano la centralità, ma di cui certo non afferravano il segreto.

L’uovo scelto da maestro Filippo era, credo, un crisoprasio, o tale mi è parso a giudicare dal bel colore verde chiaro, molto brillante. Era piuttosto piccolo, grande forse quanto un uovo di quaglia, e la cosa mi stupì un poco, perché non ne avevo mai visti di tali dimensioni. Maestro Filippo aprì l’alloggiamento nella gorgiera e posizionò l’uovo, senza tuttavia spingerlo in fondo. A quel punto, per la prima volta nel nostro viaggio, mi parlò senza acredine, sussurrando perché non ci sentissero:
«Questo spirito è con me da molto, e mai mi deluse. Esso conosce solo l’imperativo della verticalità, e vorrà esserti guida e sostegno. È bene addestrato, e ubbidirà con prontezza a due comandi: essi sono…»
E qui aggiunse le due parole di comando, che non riporto per iscritto: una per dare inizio alla scalata, una per interromperla.

Mi fece alzare e fece un passo indietro. A questo punto si fece avanti il marinaio Mercionnio che, con una riverenza finora sconosciuta, mi porse il grosso rocchetto di corda, che indossai a guisa di zaino e con una certa fatica. Cinquecento braccia di corda di canapa, strettamente avvolte e strettamente arrotolate, già preparate con un nodo ad ogni braccio. Il piano era semplice: dovevo conquistare la cima della scogliera, legare saldamente un capo della corda ad un punto solido, e lasciar cadere il rocchetto. Con una corda a nodi installata i rocciatori avrebbero poi potuto salire con agilità, piantare chiodi, e aprire una via ferrata verso il cuore dell’isola.

Ci avviammo verso la scogliera attraversando il terreno accidentato dell’istmo. La ciurma si teneva qualche passo indietro, parlottando quieta, e su tutto dominava lo strano muggito del mare, dentro e fuori le numerose grotte e rientranze ai piedi della scogliera, come un respiro. Ma la parete davanti a me era solida: un muro infinito nei colori del porpora, del rosa, del lilla. Da sotto in su era una visione imponente, e anche sublime: rivelava la mia piccolezza, e come un nemico prima della battaglia cercava di gettare sconforto nel mio cuore. È strano dare identità e quasi una volontà propria a qualcosa di inanimato, un sasso colorato, come l’ha definito giustamente maestro Filippo. Ma è così che mi sono sentito: stavo per toccare un titano.

E giunse infine il momento. Mostrai una sicurezza che forse non avevo, e senza voltarmi per chiedere l’assenso di maestro Filippo feci scattare il meccanismo della gorgiera: l’uovo spirituale venne spinto saldamente contro la mia gola, nell’incavo tra le clavicole. Chiusi gli occhi e feci largo dentro di me.

Lo spirito mi venne incontro con grande vigore, più rapido di ogni altro spirito che io abbia mai comandato stando al vostro servizio. Lo sentii invadere il mio tsolo in un momento, e poi testarne i limiti, con curiosità, senza forzature. È possibile che riconoscesse un diverso ospitante? Il Canone parla chiaro: gli spiriti sono strumenti al pari del martello di un maniscalco o del bue aggiogato. Eppure, di nuovo, mi ritrovo a proiettare identità in ciò che identità non ha. Questo spirito era notevole. Vorrei poterne parlare con maestro Filippo, ma durante la mia convalescenza egli non mi ha mai fatto visita.

Ma non voglio allungare ulteriormente questo racconto già molto lungo. Lo spirito prese possesso del mio tsolo e si acquietò, in attesa. Mi visitò un’immagine confusa, un essere scuro e coperto di pelo, la cui testa di capra recava molte coppie di corna ritorte. La sua presenza mi dava una sensazione di quieta potenza. Aprii gli occhi e scoprii che la parete davanti a me era divenuta non solo accessibile, ma si era trasformata in un qualcosa di desiderabile e interessante. Posai una mano sulla roccia trovando istintivamente un appiglio nascosto. Allungai l’altra mano e mi trovai sospeso, i piedi a penzoloni, retto solo dai polpastrelli, senza sforzo. Sentii una grande gioia nel distaccarmi dal terreno, e mi dovetti costringere a lasciare la presa e tornare giù. Sentivo addosso gli occhi della ciurma, ma quando mi voltai fu lo sguardo di maestro Filippo ad attirarmi. Guardò me e poi guardò la parete, in attesa. Tornai a dare loro le spalle e pronunciai il comando spirituale per dare inizio all’ascesa.

Fui travolto. Non so quali altre parole usare. Fui travolto da un’onda di desiderio, un’ansia disumana che solo l’atto fatale dell’innalzarsi poteva placare. Prima che me ne rendessi conto avevo già percorso una grande distanza, su e su per la roccia, mi spaventai, mi forzai di fermarmi, e mi resi conto, ad un passo dal panico, che non ci riuscivo. Il mio corpo saliva, di fessura in fessura, di costone in costone, abbracciando la roccia, trovando appigli invisibili, quasi volando. Provai ancora a rallentare, ma ogni mio sforzo si rivelò vano. Il controllo che lo spirito esercitava sul mio corpo in quel momento era totale e molto, molto più forte di me. Possessione. Dopo averne tanto letto, dopo averla sempre evitata sotto la vostra sapiente guida, eccomi alla fine vittima: possessione. Lo spirito comanda, il mago è prigioniero.

Fu questione, in realtà, di pochissimo. Ho ancora in corpo qualche granello della disciplina che mi avete insegnato e non cedetti al panico. Diedi il comando per interrompere la scalata e il controllo dello spirito venne meno, lasciandomi lì, solo, aggrappato alla roccia. La verticalità ancora mi attirava, ma ero di nuovo io a comandare. Guardai giù, e per poco non svenni. Avevo già percorso molte braccia, forse la decima parte dell’intero percorso. Vidi i marinai, di sotto, che mi additavano a la bocca aperta. Feci un profondo respiro. Lucidità. Lo spirito era forte, più forte di me, ma bene addestrato. Orgoglio. Praticavo l’Arte, e solo un praticante dell’Arte poteva compiere quell’impresa. Fermezza. Non era quello il momento di tentennare. Diedi di nuovo il comando per salire.

Il mio corpo iniziò l’ascesa, e io decisi di fidarmi dello spirito come ci si fida di una carrozza. Come in carrozza, osservai il paesaggio: acquistavo quota e abbracciavo con un solo sguardo la costa frastagliata alla mia destra, con le sue cascate e le sue pareti inaccessibili; l’istmo dietro di me, finalmente visibile nel suo insieme, come una grande virgola brulla, ripiegato a formare la caletta dove stava all’ancora, placida, la nostra caravella; l’improvvisa interruzione della costa sulla mia sinistra, un po’ per prospettiva, un po’ per l’effettiva curvatura dell’isola. E poi il mio corpo, e le mie mani: impolverate, possenti, stentavo a riconoscerle per quanto mi restassero comunque familiari. Sentivo lo spirito cantare, come canta un macchinario bene oliato, come esulta la balestra dopo aver rilasciato il colpo, e quella stessa esultanza era ripetuta ancora e ancora, ad ogni passo, ad ogni poderoso innalzarsi, ad ogni appiglio divorato.

E arrivai. Avvenne così come ve l’ho scritto, d’improvviso. Lo spirito gridò di frustrazione: non c’era altro da scalare, la salita era finita. Diedi il secondo comando per fermare l’ascesa e quietare le sue proteste e finalmente mi potei guardare attorno. Ero in piedi, già immerso in una vegetazione così avida di spazio che rami e foglie e radici si allungavano nel vuoto alle mie spalle alla ricerca di altro, altra terra da insediare, altra luce da rubare. Posavo per la prima volta i piedi, davvero, su Malu Malu. Forse il primo uomo civilizzato a farlo. Mi voltai: sotto, lontanissimi, la ciurma si sbracciava per salutarmi, in festa, ma il vento portava via le loro voci.

A questo punto, a malincuore, devo interrompere la narrazione. Come vedete dalle macchie sulla carta, sto sanguinando, e queste mie poche parole – espressione che ho scioccamente usato in apertura – si sono già trasformate nella più lunga delle lettere che vi abbia mai scritto. E c’è ancora molto da dire. Prometto che domani, o quando me lo permetteranno le forze, continuerò il racconto.

Come sempre, servo vostro,

L.

Solite cose social:

2 comments

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *