Libro terzo della serie della Guida Galattica per Autostoppisti. Nell’anno del Signore 2019 fare questa recensione mi butta in dissonanza cognitiva: saltare subito nei dettagli mi irrita l’organo della buona scrittura, ma fare un discorso introduttivo di questa roba che è stranota è un tantinello ridondante. Che fare? Facciamo che metto una mini intro veloce veloce e se la sapete potete saltarla gagliardi (non che io possa impedirvelo, comunque).
La Guida Galattica per Autostoppisti è sia il titolo del primo romanzo della serie sia il nome della serie per esteso (cinque romanzi in tutto). Questo è, dicevo, il terzo, subito dopo “Il ristorante al termine dell’universo” e prima di “Addio, e grazie per tutto il pesce” e “Praticamente innocuo”. È una serie fantascientifico-comica. Comica nel senso che fa ridere. Fantascientifico nel senso che ci sono gli alieni, sì, e i pianeti, sì, e le astronavi, certo. Ma che non si prende neanche lontanamente sul serio. Non ci sono mappe stellari, calcoli sulle dimensioni delle flotte, schemi tecnici sui motori a propulsione. Non è, neanche lontanamente, escapismo. E allora cos’é?
La serie parla soprattutto dell’umanità, delle sue idiosincrasie, di quegli aspetti grotteschi della realtà che chiamano, implorano di essere parodiati. Sulla copertina della Guida Galattica per Autostoppisti (che è anche un manufatto esistente nell’universo narrativo) c’è scritto in caratteri grandi e rassicuranti: DON’T PANIC (Niente panico). È il consiglio migliore, quello di cui hanno bisogno tutti.
La citazione
Mentre lui se la dormiva, Trillian aveva consultato la Guida galattica per gli autostoppisti per vedere se ci fosse qualche consiglio riguardo alle sbornie.
“Andate fino in fondo” diceva la Guida “e buona fortuna.”
Questo libro, nello specifico, racconta la sua storiella amichevole sulla distruzione dell’universo. Ma è secondario. La trama c’è, per carità, e c’è anche un colpo interessante, ma davvero è poco più che una scusa per sballottare i protagonisti e prendere per i fondelli l’umanità – con particolare acume verso gli inglesi, connazionali dell’autore, e la loro passione per il cricket.
Esempio (spoiler, via, ma poca roba, e comunque succede quasi subito all’inizio). La nave su cui viaggiano i protagonisti per buona parte del romanzo funziona secondo i principi della bistromatica. Avete presente quando si arriva in fondo ad un pranzo al ristorante, si fa per dividere i conti, e non tornano mai, e c’è sempre qualcuno che fa il furbo, e ci si mette pure il cameriere, e alla fine si esce con la sensazione di essere stati in qualche modo fregati? Ecco, non è colpa vostra. Avanzatissime società aliene hanno scoperto che l’aritmetica a fine pasto ha la capacità di distorcere le regole della matematica e, di conseguenza, quelle della realtà. Sfruttando questo principio, tadan!, trasporto interstellare. Non è colpa del solito antipatico che prende gli spaghetti allo scoglio in pizzeria, ecco.
Il libro ha una buona dose di umorismo verbale, ovvero basato sulle parole e sull’invenzione delle parole. Questo mi sa che un po’ si perde nella traduzione, e infatti è la parte che mi ha acchiappato meno. Qui il traduttore ha fatto il possibile, veh, niente da dire, ma certe cose non passano, è fatto noto (lo dicono anche in Dungeons & Dragons, dove l’incantesimo “Risata incontenibile di Tasha” porta penalità se il bersaglio è di un’altra razza, perché l’umorismo non si traduce bene).
A dirla tutta non ha la freschezza del primo romanzo della serie, eh. Ci sono un paio di momenti gagliardi, ma ce ne sono anche tanti “alla Adams”, dove lo stile vira un filo troppo verso il manierismo. Resta una lettura piacevole, scorrevole, positiva.