GIORNO 9
Luminosissimo maestro,
riprendo ora dopo che ieri le ferite mi hanno costretto a fermarmi. Cercherò – questa volta davvero – una qualche forma di sintesi, per non dilungare troppo queste mie lettere, e per non far arrabbiare il buon Mercionnio, che mi sta aiutando con le fasciature e che con sincerità ha a cuore la mia salute.
Come vi ho scritto nella mia ultima lettera, grazie all’uovo spirituale datomi da Maestro Filippo sono riuscito a completare la missione e raggiungere la cima della scogliera. Ripresomi dall’emozione iniziale, mi trovai in necessità di individuare un appiglio abbastanza sicuro per legare la corda che avrebbe aiutato i rocciatori ad aprire la via. Affinché voi abbiate chiara la situazione vi dico che ad accogliermi in cima alla scogliera trovai una selva fittissima, densa all’inverosimile di una vegetazione vivace, che faceva mostra di sé con colori vibranti come mai ne vidi in patria. Vi trovai piante di foggia strana, dal piede grasso e dalla foglia larga, che conducevano la loro gara silenziosa per accaparrarsi scampoli di luce e terreno. Non vi era anzi frazione di terra che non fosse invasa da radici, arbusti, felci e foglie cadute, in un caotico affastellarsi di fibre su fibre e vita su vita. Questa selva proseguiva fino a slanciarsi oltre il baratro netto della scogliera, alle mie spalle. Mi vidi subito che avanzare anche solo di qualche passo sarebbe stata questione faticosa, dovendo lottare contro rami e sterpaglie per conquistare ogni spanna.
Avevo ancora dentro me lo spirito datomi da maestro Filippo. Lo trattenni non per strategia ma per pigrizia: volevo risparmiarmi le operazioni di chiusura, e speravo che la mia permanenza lì in cima fosse cosa da poco: mi sarei dunque trovato a breve ancora in necessità di usufruire dello spirito per discendere la scogliera. Iniziai quindi a farmi largo nella selva, e individuai subito un grande albero, poco oltre, che avrebbe fatto al caso mio.
Procedere fu un mestiere lento ma tutto sommato insignificante. Dovetti spezzare rami, sradicare piantine, farmi largo a forza, ma passai. Voltandomi indietro fui soddisfatto del mio lavoro: avevo prodotto un breve corridoio, di dieci o forse venti braccia, che dal bordo della scogliera portava dritto ai piedi dell’albero da me scelto. Era questi un esemplare magnifico della strana varietà di cui vi accennavo appena sopra: il tronco non nasce dritto come nelle piante comuni in patria, ma bombato, come un vaso, e la corteccia è composta di innumerevoli scaglie di colore chiaro, quasi cenere. La pianta sale per molte braccia al cielo, e solo in cima produce un ombrello di foglie a raggiera, amplissime nell’insieme sebbene ciascun elemento non sia più largo di un dito. Saggiatone con qualche spinta la solidità, e trovandola soddisfacente, mi cavai dalle spalle il rocchetto e legai al tronco il capo della corda a nodi.
Saggezza avrebbe voluto che, a questo punto, mi avviassi a scendere la scogliera per la medesima via da cui ero venuto. Purtroppo più che la ragione poté la curiosità, e non resistetti all’impulso di esplorare ancora per un poco la superficie dell’isola, che avevo così di recente conquistato. Non avevo però nessuna voglia di proseguire ancora per la selva, tra piante spinose e liane urticanti. Così, vittima del desiderio di verticalità dettatomi dallo spirito che ancora albergava nel mio tsolo, decisi di arrampicarmi su quel medesimo albero a cui avevo fissato la corda.
La salita avrebbe rappresentato un’impresa ardua per uno scalatore meno che provetto, senza ramponi per far presa sulla corteccia e senza rami laterali su cui issarsi, ma lo spirito del crisoprasio aveva già ampiamente dimostrato le sue doti. Non dovetti nemmeno dare il comando di ascesa: trovai con naturalezza una mia posizione, abbracciando l’albero con gli avambracci e poggiando le piante dei piedi sul tronco. Quasi camminavo, e speditamente, su quella strada verticale. Trovai qualche intoppo al momento di sfondare il tetto di foglie e arbusti che, più bassi, costituivano il tetto naturale della selva, ma nel giro di pochi minuti fui sopra. Mi ergevo finalmente oltre la grande coltre verde che copre l’isola e, al colmo dell’eccitazione, la potei guardare senza veli.
La giornata era limpida, il cielo cristallino. È importante che lo sappiate, per riuscire a immaginare la fuga infinita del mio sguardo. La coltre verde sotto di me, inestricabile e omogenea nella sua compattezza, proseguiva alla mia destra e alla mia sinistra, e per una certa misura più avanti, verso il centro dell’isola. Ma qui, forse a distanza di mezza lega, avveniva un qualche cambiamento, sia nella densità che nella natura della vegetazione. Si faceva tutto più scuro, ma anche meno fitto. Era come se sul bordo esterno dell’isola, in prossimità della scogliera, le piante si fossero accordate per formare un anello protettivo che rendesse Malu Malu ancora più inaccessibile. Il diradamento proseguiva verso l’entroterra fino a mostrare radure e, in lontananza, veri e propri prati, sebbene sempre punteggiati da bassi cespugli e dall’occasionale albero. Il curioso anello di densa vegetazione proseguiva invece lungo la costa, alla mia destra e alla mia sinistra, fin dove l’occhio poteva arrivare.
Ma c’era dell’altro, ovviamente. Mi rendo ora conto di non avervi parlato del profilo montuoso dell’isola. Malu Malu, sebbene di forma grossomodo circolare, non presenta però una simmetria radiale. È infatti percorsa da nord-est a sud-ovest da una lunga cresta montana, che mostra il suo apice in un massiccio che occupa il centro dell’isola. Non sono alture svettanti, e potrei stimarne l’altezza massima in alcune centinaia di braccia. La sommità centrale conduce a quello che sembra essere un altopiano. Sarà interessante, al momento opportuno, esplorarne la cima. È proprio sopra tale altopiano che vidi volteggiare…
Mi trovo qui in difficoltà nella scelta delle parole. Vi riporto la mia esperienza, ma vi prego di prenderla per quello che è: la testimonianza del vostro fedele apprendista, che ha subito degli eventi traumatici e ora cerca di riportarveli come può. Mi vergogno anche un po’ a scriverne, per l’evidente impossibilità, tanto che io stesso al vostro posto faticherei a credervi.
Vidi volteggiare grandi uccelli sopra l’altopiano centrale. Da lontano le figure non si distinguevano, ma dai movimenti lenti, accarezzati dal vento, pensai subito ai grandi volatili marini, albatross o forse gabbiani, che sfruttando le correnti ascensionali si librano nell’aria senza peso e senza battiti di ali. Osservai per qualche minuto quelle figure e già mi apprestavo a scendere, quando un cambio repentino nei loro movimenti mi informò senza lasciare spazio a dubbi che io stesso, così appollaiato in cima all’albero, ero stato notato. Lo stormo si scosse: una parte consistente sparì dalla mia vista, trovando rifugio in qualche luogo nascosto tra le montagne. Ma non tutti: un gruppo di quattro figure si avvicinò a grande velocità verso di me, e nell’avvicinarsi io potei scorgere, con crescente stupore, la loro natura. Uno di essi era, in effetti, un grande uccello: bianco, le ali larghe quanto e più le braccia allargate di un uomo. Gli altri tre erano invece, indubbiamente, figure umane. Nativi, credo: uomini in grado di spezzare il giogo del peso che ci inchioda a terra e di librarsi come piume. Volavano per circoli e spirali, tuffandosi e risalendo, a volte con le braccia larghe e ferme, a volte composti, come dormienti. Il loro percorso nell’aria era maestoso e umile insieme, e soprattutto naturale. Non vi era mai un angolo brusco, o una curvatura forzata, e sembrava quasi che fosse il vento stesso a condurli, come tante foglie in una giornata d’ottobre.
I quattro si avvicinarono a me, l’uccello puntandomi direttamente, e gli altri fluttuando nella loro maniera peculiare. Mano a mano che si avvicinavano potei distinguere altri dettagli: i nativi erano tre, due donne ed un uomo, ed erano nudi. La loro pelle era certamente più scura della nostra, ma non color dell’ebano come in certe popolazioni dell’Africa. Ricordava il colore del legno dell’acero, ovvero conteneva una componente olivastra su un incarnato mediterraneo. Portavano tutti capelli lunghi, e neri, e mi è parso di intravedere monili ai loro colli e sui loro corpi. Su questi dettagli devo essere purtroppo vago, per i motivi che saranno subito chiari: arrivati forse ad una o due centinaia di braccia da me, ovvero in corrispondenza o poco oltre il confine di quell’anello di vegetazione densa che protegge il bordo dell’isola, i nativi si fermarono, fluttuando e compiendo capriole nell’aria. Il grande uccello invece proseguì, rapido e preciso, ed in un momento mi fu addosso.
Di quest’ultimo quindi potei avere una visione più precisa, ma ho poco da aggiungere: era un volatile di proporzioni notevoli, completamente bianco, con l’unica eccezione di becco e zampe palmate, che erano di un bel giallo vivo. Quando dico che l’animale mi fu addosso non dovete pensare che mi attaccò: mi passò vicinissimo, quasi mi sfiorò, e poi iniziò a volarmi intorno. Sfruttando le poderose ali, anche se con un’evidente fatica, l’uccello volava in stretti cerchi attorno e sopra di me, osservandomi.
Se questo non fosse già un comportamento abbastanza strano, devo ora aggiungere il fatto più strano, e grave, del già straordinario evento. Ricorderete che ancora contenevo, nel mio tsolo, lo spirito del crisoprasio datomi da maestro Filippo. Ebbene, pochi istanti dopo che l’uccello ebbe iniziato a volarmi attorno sentii lo spirito scuotersi dentro me. Ricorderete che, nell’atto dell’instaurazione, ebbi la visione di una figura vagamente capresca, con un capo nero addobbato di molte paia di corna ritorte che giaceva su un corpo indefinito, peloso e poderoso. Ecco, questa visione ora mi tornò, cento volte più potente. Vedevo lo spirito, come sovrapposto alla normale visione di questi miei occhi. Lo vedevo inquieto mentre si aggirava a passi rapidi nel mio tsolo, ora stando sulle quattro zampe, ora su due posteriori, pervaso da una grande irrequietezza. Saggiava le pareti del mio tempio interiore, ne toccava le colonne, ne graffiava il bel marmo dei pavimenti con lo zoccolo fesso dei suoi piedi. Esso rispondeva ad un richiamo misterioso, che lo stava come inselvatichendo.
Spaventato da questa novità, decisi di procedere secondo i dettami dell’arte. Il Canone consiglia di non Comandare spiriti che mostrino comportamenti anomali. Chiusi gli occhi, cercai la mia Fermezza, e provai a scacciare lo spirito, forzandolo a tornare nell’uovo spirituale. Ho scritto “provai”, e potete ben immaginarne il motivo. La mia volontà, che già si era rivelata insufficiente durante la scalata, non poté nulla contro il potere di questo spirito, che anzi si infuriò, come se avesse capito le mie intenzioni. Mi trovo ancora a dare emozioni agli spiriti, come spesso i padroni dei cani ne assegnano alle loro bestie. So che non è la dizione corretta, ma non trovo altri termini che rendano con completezza la situazione. Lo spirito si infuriò, ebbi l’immagine di cornate e pugni bestiali che si abbattevano sulle belle pareti del mio tsolo, e a mio maggior sgomento la sua furia fu ripresa dall’uccello sopra di me, che iniziò a gettare alte grida e strepiti.
Io ero ancora abbracciato alla cima dell’albero, e decisi quindi scendere e trovare riparo nella selva. Riuscii in effetti ad abbassarmi di un braccio o due, ma solo per venire investito da un impeto straordinario, un comando irresistibile a salire e riprendere quota. La lotta tra me e lo spirito si protrasse per un periodo breve, credo, ma che a me parve lunghissimo. A tratti riuscivo a imporre per un istante la mia volontà e scendere di qualche spanna, per venire poi subito sopraffatto e perdere in un momento quello che così a fatica avevo conquistato. Dopo tali continue lotte per guadagnare o perdere quota, già in preda ad un profondo sgomento, la situazione mi parve farsi ancora più grave. Sentii infatti altre strida provenire dal centro dell’isola, e alzando gli occhi vidi altri due di questi grandi uccelli muoversi con somma velocità verso di me. Spaventato, forse in preda ad un terrore ingiustificato, decisi di ricorrere a rimedi estremi. Mi abbracciai come meglio potei al tronco dell’albero e feci scattare il meccanismo della gorgiera: l’uovo spirituale perse il contatto con la mia gola, lo spirito venne espulso.
Ben conoscete le conseguenze di questa procedura d’emergenza. Il trauma fu notevole, venni scosso da un conato e sentii le viscere ribellarsi, la bocca mi si riempì di bile, la gola di acido, e per un istante non vidi che una grande macchia rossa davanti a me. Anche ora, a quasi una settimana da questi fatti, sento un bruciore sordo nel mio palato, e parlo con voce arrochita. E poi vi è dell’altro: anche nel furore dell’evento – della battaglia, vorrei scrivere – il pensiero di aver danneggiato lo spirito mi terrorizzò. Temevo le reazioni di maestro Filippo, temevo che egli mi punisse e mi ripudiasse. Tuttora lo temo, in verità, e non so come interpretare il suo silenzio di questi giorni. Vi penserò a tempo debito, una volta terminato questo mio resoconto.
Come vi ho detto: espulsi lo spirito e tornai padrone del mio corpo. E però qui ben vedete la difficoltà della mia posizione. Ero a molte braccia da terra, io che non ho mai scalato neanche per gioco un basso albero di pesche. L’unica cosa che potei fare fu, con una qualche fatica, restare dov’ero, mentre il mio stesso peso minacciava di trascinarmi giù. In quell’istante di improvvisa calma, dove cercai di riprendere fiato e rasserenare il mio cuore, riuscii a notare un nuovo particolare: il silenzio. Le grida degli uccelli – ora tre, tutti in circolo sopra di me – erano cessate. Alzando gli occhi vidi che i nativi si stavano allontanando, con la loro andatura fluttuante, mentre gli uccelli si limitavano a volare in cerchio sopra di me, come disorientati. Poi l’albero che abbracciavo fu percorso come da un brivido, il legno cigolò, e io crollai a terra, strisciando con violenza braccia, gambe e corpo contro la corteccia impietosa. Mi schiantai, graffiato, ammaccato, sanguinante. Le braccia più di tutto avevano subito delle ferite, e dei lunghi tagli mi percorrevano l’interno degli avambracci, dal gomito al palmo delle mani. Mi accorsi con orrore che dovevo aver reciso in profondità un qualche vaso sanguigno: sanguinavo molto.
Da qui in poi il mio racconto si farà confuso: vi chiedo perdono, ma non ricordo con precisione l’accaduto. Ricordo che la gorgiera, con ancora l’uovo saldamente racchiuso nel suo alloggiamento, mi fu strappata durante la caduta: due cinghie si erano spezzate. La raccolsi con le mani lorde del mio stesso sangue, e ho questo ricordo di dover lottare contro un arbusto che l’aveva come accolta e non voleva in alcun modo liberarla. Di forza strappai la piantina e mi infilai di nuovo la gorgiera sulle spalle. Poi, zoppicando e sanguinando, mi avviai verso la scogliera, facendo rotolare a calci il rocchetto della corda davanti a me. Sentii ancora un grido provenire dal cielo, ma ormai ero penetrato sotto il tetto della selva e non potevamo più vederci: né loro, me, né io, loro.
Ho altri ricordi confusi: la foresta mi parve d’improvviso piena di rumori, fruscii, tremiti. È pur vero che un grosso ramo mi cadde davanti e quasi mi schiacciò, e dovetti faticare per scavalcarlo. Ma se vi era del dolo non so dirlo, perché attorno a me non vidi colpevole, animale o nativo, ma solo piante, piante, piante. Proseguii nel mio cammino, e ora che cerco di ricostruire quanto accaduto non posso che pensarvi come a una lotta. Con grande fatica lottavo contro la foresta, per poterne uscire. Ma ben vedete, perdevo sangue copiosamente, zoppicavo per la caduta, e ancora il trauma dell’espulsione dello spirito mi contorceva le budella. Non sono un testimone affidabile.
Giunto al bordo della scogliera diedi un ultimo calcio al rocchetto, che iniziò a precipitare e, così facendo, a srotolarsi. La mia comparsa fu accolta da un grido, ma questa volta di esultanza: la ciurma era ancora lì sotto ad attendermi. Mi apprestai a scendere, sebbene con grande fatica. La corda a nodi fu un aiuto straordinario, giacché mi consentiva di prendermi ampie pause laddove le mie forze venissero a mancare. Mi bastava chiudere entrambi i piedi su uno dei nodi e abbracciare la corda per restare sospeso, a riposo. Ma anche così fu un’impresa lenta, e più volte fui sul punto perdere la presa. I muscoli dolenti, la perdita di sangue e lo spavento crearono nella mia testa una grande confusione, come una nebbia informe che copriva i dettagli. Necessitai, credo, di mezz’ora per completare la discesa. So che quando ormai ero in vista dell’arrivo, e i marinai si erano raccolti sotto di me, le mie mani cedettero e crollai per le ultime braccia di percorso. L’impatto fu tale da farmi perdere i sensi. Venni quindi accudito e riportato nella mia tenda, da cui vi scrivo ora. Sono passati sei giorni dall’evento, e oggi posso dirmi non del tutto guarito ma di certo molto ripreso.
Due note di servizio, di cui vi riparlerò in dettaglio nelle prossime lettere: è stato completato in questi giorni il periplo dell’isola e, come sospettavamo, questa baia è l’unico luogo di attracco utilizzabile. E poi sì, la mia impresa non è stata vana: grazie alla mia corda i rocciatori hanno completato una grande parte della ferrata, e a breve dovrebbero conquistare la cima della scogliera. Nuove avventure ci attendono.
Come sempre, servo vostro,
L.
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