Il senso delle cose

[Ho scritto questo racconto per il concorso “Scrivere con i grandi“, organizzato da Typee. Loro ti davano dei pezzi di romanzi famosi e tu (cioè, io) dovevi collegarli e creare un racconto di massimo 7000 caratteri, citazioni comprese. Ammetto di aver cercato di scrivere “alla Typee”, e rileggendolo mi pare sia venuto un po’ ampolloso. Oh, la prossima volta andrà meglio. Soliti ringraziamenti per critiche e consigli a: Sibilla, Federica, Raffaella. Ecco qua.]


Guardò il cielo. Anche il cielo era altrettanto magico quanto la terra. Il cielo si era schiarito e al di sopra delle vette degli alberi correvano rapide delle nubi che sembrava volessero coprire la terra. A volte sembrava che stesse schiarendo, mostrando il cielo nero e pulito. A volte sembrava che quelle macchie nere fossero nuvolette, a volte sembrava s’innalzasse alto, altissimo sopra la sua testa; a volte invece si abbassava al punto che sembrava poterlo toccare con una mano.

Lev Tolstoj, Guerra e Pace

Gli sarebbe piaciuto, poter toccare il cielo. Farsi ponte verso il superno, connettere come filo galvanico i due universi, la terra sporca e viva e il cielo pulito e sfuggente.

Ma non poteva. Non poteva come nessun uomo aveva mai potuto. Questo gli era già chiaro, era già nel baule delle cose capite, nonostante le promesse, il futuro misterioso, l’ubriacatura di possibilità: cosa farò da grande, dove andrò, quali città, quali facce. Eppure certi limiti erano già chiari. Il superno era materia altra, non affare per i vivi. Sfuggente. Non del tutto isolato, non del tutto irraggiungibile, ma distante. Difficile. Almeno, questo sperava: ineffabile, non ci poteva mettere le mani, poteva solo agire – ma già la parola, agire, si trascinava una pesantezza materica, zavorrata, odiosa – agire, sì, ma in maniera obliqua. Una via altra. Simboli, restaurazione, giustizia.

Chiuse la porta dietro di sè in assoluto silenzio. Oggi, azioni. Domani, conseguenze. Suo padre dormiva ancora. Magari avrebbe capito. O non gli sarebbe importato. Controllò di avere tutto: spranghe, badile, anello. Stonava, è ovvio. Agire è fango, sporco, sassi. Le nuvole lì sopra, basse basse, si rincorrevano senza peso, salutavano, irraggiungibili. Lui le salutò di rimando, iniziò a camminare.

Alcuni di loro, che erano già arrivati, giocavano a biglie sul lastricato del cimitero. Altri, a cavalcioni sul muricciolo, agitavano le gambe falciando con gli zoccoli i grossi ciuffi d’ortica spuntati tra la breve cinta e le ultime tombe.

Gustave Flaubert, Madame Bovary

Amici. Straordinari eroi, ciascuno di loro era riuscito nell’impresa furtiva di essere presente, per lui e ancora prima di lui. Quando arrivò qualcuno gli sorrise, qualcuno gli diede una pacca sulla spalla. «Ce l’hai?» «Fa vedere.» «Com’è andata?»

Com’era andata?

Era andata che aveva affrontato ciò che aveva affrontato, fatto ciò che aveva fatto. Peccato mortale. Ci avrebbe pensato poi, al pentimento. Qui, adesso, sentiva di non poter dubitare, finse di non aver paura. Raccontò. Due giorni fa, l’altro ieri, aveva fatto l’ultimo sopralluogo alla casa-museo, ma guardare, osservare, annotare non bastò più. Aveva fatto una cosa brutta e premeditata. Peccato mortale. La carne rubata poco a poco. Peccato mortale. La tanica presa dal capanno. Peccato mortale. Il cane da guardia latrò, abbaiò, ringhiò, schiumò. Poi: annusò, mangiò, scodinzolò. Poi: sedette, uggiolò, guaì. Avvelenato. Peccato mortale. Lì vicino finiva il tubo della grondaia, che poi andava su, su, fino al cielo, fino al tetto, fino a quel posto là. Scappò senza farsi vedere.

«E poi? E poi?» Gli amici, storditi dal racconto, d’improvviso reale, d’improvviso materico. Lo capivano. Forse non come lui, forse non erano strappati dalla dualità violenta, il sopra e il sotto, il bagnato e l’asciutto. Ma lo capivano. «E poi?»

E poi arrivò il momento di agire. Pesante, inchiodato. Ieri,

giunto all’angolo con la via del giorno prima, vi si affacciò con un’ansia tormentosa, guardò quella casa e subito distolse gli occhi.

Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo

Sapeva di non volerci tornare. Ma cosa fare a questo punto? Lasciare tutto? Ora che le cose si stavano muovendo, ora che aveva già commesso una prima crudeltà? Rinunciare rendeva davvero tutto inutile. Questo lo capiva, l’aveva già capito. Il senso delle cose è un coperchio che tiene tutto assieme, è il ponte che collega e trasforma il grosso in sottile, l’umido in asciutto, la materia in etere. Inghiottì aspro. No, impossibile fermarsi adesso, bisognava continuare, completare. Gli tremava la mano. Gli sudavano i piedi negli zoccoli, nonostante il freddo, nonostante tutto. Trasse di tasca le monete, le contò un’altra volta. Si avvicinò alla casa. Il cane non c’era più. Dopo, ci penseremo dopo. Oggi, agire. Suonò e attese un tempo straordinario. Gli venne ad aprire un vecchio.

L’appartamento era all’ultimo piano: un piccolo soggiorno, una piccola sala da pranzo, una piccola camera da letto e un bagno. Il soggiorno era pieno fino alle porte di mobili decisamente troppo grandi, rivestiti di gobelin, per cui muoversi significava inciampare di continuo in scene di dame a passeggio nei giardini di Versailles. Il solo quadro era una fotografia troppo ingrandita, che rappresentava una gallina seduta su una roccia sfocata.

Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby

Lì dentro si sentiva mancare il fiato, non si immaginava qualcuno viverci. Eppure. Guardò il soffitto, la botola verso il solaio, la corda che pendeva. Il vecchio sogghignava. Materico, pesante.

«È opera di un pazzo furioso. Di qualche matto scappato da un manicomio nei dintorni.

Edgar Allan Poe, I delitti della Rue Morgue

Non abbiamo toccato niente, dopo il fatto. I gendarmi volevano portare via tutto, eh, ma abbiamo vinto noi. Vedrai. Una vera rarità.»

Consegnò le monete.

Il vecchio incassò sorridendo il denaro e, subito, trasse di tasca un grosso sigaro che accese e fumò con grande voluttà.

Italo Svevo, La coscienza di Zeno

Poi diede uno strattone deciso e fece scendere la botola. Trasse da chissà dove una scaletta. «Dieci minuti.» Lui si issò.

Era pronto, preparato, sapeva. Era stupito, impreparato, non sapeva. Dalle pareti le donne lo guardavano, le cosce lo guardavano, le braccia, le gambe, le bocche lo guardavano. Era entrato in un reliquiario, i muri coperti di fotografie e sotto ogni fotografia un pezzettino della santa. Una giarrettiera, una scarpa, un dente. Un anello. Un anello sotto una faccia nota, cercata, amata. Pesante. Se lo sentiva addosso quel peso. Il cuore gli scoppiava, prese l’anello, lo portò al lucernario, lo fece rotolare nella grondaia, piano piano. Clang clang. «Che stai facendo?» E poi «Ladruncolo!» E poi «Svuota le tasche, fa vedere!» Mani addosso, mani pesanti, di vecchio. Ma non c’era niente da trovare.

Gli amici al cimitero lo guardarono in silenzio. Qualcuno fischiò di ammirazione. Qualcuno non ci credeva. Qualcuno gli prese di mano il badile. «Andiamo». Andarono. Ecco la tomba, ecco la fotografia. Faccia nota, cercata, amata. Così uguale alla sua. Un mestiere sporco, di fanga e di paura. Scavare, trovare, allargare. Depositare. Si concesse mezzo respiro, sotto il cielo chiaro, nel giorno ormai fatto. Un qualche tipo di connessione. Un qualche tipo di senso. Scacciò le lacrime. L’anello, cadendo dentro, tintinnò come un cristallo.

Tornarono in silenzio, dopo.

Anche la nebbia e il buio erano svaniti, visto che si era ora in un freddo e limpido pomeriggio invernale e la neve ricopriva il terreno.

Charles Dickens, Canto di Natale

Erano passate solo poche ore, ma

molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di storiche, erano accadute in questo frattempo.

Alessandro Manzoni, I promessi sposi
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