Gli asettici e lucidissimi servizi igienici della Kaneda e Kaneda assicurazioni brillano nelle loro cromature e sfavillano nel loro acciaio, in un trionfo di plexiglas e specchi. Prodigio tecnologico, danno asilo a decine di sensori: erogazione di acqua, sapone, aria calda e fredda, apertura porte, risciacquo dei sanitari, afflusso di agenti deodoranti e disinfettanti. Tutto è controllato, regolato, preciso, un gioiello di freddezza e precisione, tanto da farti sentire in colpa se devi, che proprio non ce la fai più, ecco, potendo fare a meno, che peccato però, tutto così perfetto e inorganico, ma quando bisogna.
Quando va bene e sei da solo, ovvio.
Perché i lucidi ed asettici servizi igienici della Kaneda e Kaneda assicurazioni – servizi ad uso del personale dipendente, precisiamolo, perché i due Kaneda eponimi hanno ciascuno il suo piccolo spazio rivestito in legno e ceramica, caldo, accogliente, domestico – tali spazi, che si fatica a chiamare bagni, hanno un difetto imprevedibile e invadente: l’acustica. Le lisce e perfette pareti non solo rimbalzano i suoni alla perfezione, ma sembrano addirittura amplificarli. L’ambiente esterno è del tutto tagliato fuori dalle porte d’ingresso, isolanti, che si richiudono con meccanica precisione alle spalle del bisognoso viaggiatore. Si entra così in una sorta di monastero, una cappella del silenzio dove il fruscio dei vestiti o il cigolare di scarpe troppo nuove rimbombano e saturano l’ambiente. Entri in questi spazi e la pesantezza dell’atmosfera ti schiaccia, cerchi di fare meno rumore possibile, anzi ti frughi spaventato per togliere la suoneria del cellulare – solo per accorgerti che comunque non prende, troppo metallo intorno.
L’oppressività dell’atmosfera già basterebbe a creare un esercito di stitici: nel cuore degli impiegati nasce un misto disagio, imbarazzo e paura mentre si accingono, sentono che arriva il momento, reprimono un po’ di istinti, ancora sei ore, ancora quattro ore, ho quasi finito, vado a casa, ce la faccio, posso, devo, sono forte, sono imbattibile!
Non ce la faccio.
Si capisce al volo, tutti ormai riconoscono l’espressione grigia di chi è costretto verso il bagno, condannato dal suo stesso corpo. La vittima si guarda intorno impaurita, misura i passi, procede a tentoni cercando di sviare l’attenzione dei colleghi, di dissimulare. Ma arrivata davanti alla porta si blocca: impietrita, metallica come la stanza che la attende, altrettanto vitrea. Un passo ancora, e le porte si aprono scorrendo silenziose, un passo ancora e si richiudono alle spalle tagliando fuori i suoni.
Tra il personale impiegatizio gli stitici sono invidiati. Quelli dal ritmo irregolare. I metabolismi pigri. Si parla sottovoce, con acredine ed ammirazione, di un collega al quarto piano con un blocco intestinale. Si scelgono accuratamente i cibi più intasanti, si evitano le fibre, si maledicono la crusca ed i latticini, rivolgendo sorde preghiere al dio dei limoni. E si vive nel terrore.
In un terrore reciproco, in realtà. Espletare l’esperienza in solitudine, nel metallicissimo ed asettico bagno, è ancora vagamente sopportabile. Ci si sente un po’ in soggezione, si cerca di fare poco rumore, che ogni sgocciolio, ogni sommesso movimento gastrico, ogni sordo sobbollire diventa esplosione, petardo, eccheggia e non si decide a tacere. Ma in fondo si può scendere a patti con il proprio corpo. In fondo, se sei solo, è roba tua.
Ma se nel bagno c’è qualcun altro le cose cambiano. Impiegati allevati nel rispetto reciproco, nella legge della non invasività, abituati al proprio ristrettissimo ed inviolabile spazio vitale si ritrovano lì, seduti in due box contigui, separati da una sottile parete d’alluminio, nel silenzio più assoluto e con i pantaloni calati. In attesa.
L’imbarazzo è un sentimento irrazionale: non c’è nessun vero motivo per soffrire, per forzare il proprio corpo, per vergognarsi di qualcosa che ciascuno fa. Eppure.
Eppure gli impiegati sono figli di una società ordinata, inorganica, troppo distanti dalle professioni contadine degli avi, di chi allevava bestiame, si sporcava le mani, la faceva nei prati. Gli impiegati conoscono solo una breve fetta di universo, e di questa hanno adottato le regole, ingoiandole senza guardare, senza mettere in dubbio, senza fare fatica. Gli impiegati non sopporterebbero di emettere il più piccolo suono intimo, hanno terrore di invadere la coscienza di qualcun altro, di entrare a forza in uno spazio non proprio. Preferiscono il dolore. Preferiscono scappare.
Ma l’animo umano è variegato. Presa una popolazione abbastanza grande ogni personalità ne sarà rappresentata secondo le proporzioni statistiche. I pensieri, poi, sono da sempre pericolosi.
Un giovedì pomeriggio Hidanzu Kubota si recò al bagno. Non poteva, oggettivamente, resistere oltre. Entrò nel lucido ambiente, all’apparenza deserto, ma qualcosa non lo convinse. Con i sensi tesi, cercò altre presenze umane. Si abbassò spiando da sotto le porte, ma vide solo una fila di spendenti tazze metalliche. Ma non era una certezza, c’è chi solleva i piedi e sta accovacciato come un uccello su un ramo. Si fermò ad ascoltare, ma se c’era qualcuno nascosto in uno dei molti box doveva essere uno bravo: non emetteva suono. Non sentì fruscii, non il tintinnare di una fibbia, non il respiro affannato di chi viene interrotto durante un’operazione delicata. Eppure Kubota lo percepì. Qualcuno c’era. Qualcuno di vivo, nascosto, spaventato. Qualcuno che lo stava maledicendo col pensiero, ma che non avrebbe mai osato mostrargli il suo volto.
Fu in quel momento, in quel preciso momento, che qualcosa si ruppe in lui. D’improvviso tutto gli sembrò assurdo: le convenzioni sociali, il rispetto forzato, le regole a cui era sottoposto e che vincolavano le sue scelte. Si fece la domanda peggiore, quella che porta guai e che non consente di sopportare oltre. Si chiese: perché? Perché lo sto facendo? Perché lo accetto? Ho scelto io tutto questo?
Restò bloccato, dimentico della propria fisiologia, folgorato da se stesso. Ristette.
Uno dei box si aprì di scatto. Ne venne fuori in tutta fretta un uomo vestito di grigio, che si sciacquò le mani rapidamente ed uscì senza guardarlo. Peggio: senza alzare lo sguardo. Kubota lo guardava, affascinato, osservava i suoi gesti a scatti, il suo modo di fare nevrotico e affrettato e si chiese ancora: perché? Perché mi odia? Perché non ha finito?
E questo fu, ovviamente, troppo. La risata lo investì come un treno, quasi si pisciò addosso, assaporò la volgarità e l’assurdo, la distruzione e lo scherno, la prepotenza e la sottomissione. Rise isterico, si piegò su se stesso, brancolò verso uno dei box e la fece così, con la porta aperta, coraggiosissimo, rumorosissimo. Di più: si beò di se stesso, dei propri suoni, dei propri odori, si sentì potente, si sentì un rivoluzionario, sentì di aver fatto qualcosa di finalmente nuovo, finalmente originale, guardò i propri abiti identici a quelli dei suoi colleghi e capì che questi, proprio questi vestiti contenevano qualcosa di completamente diverso, una potenza infinita ed irrefrenabile.
Lavandosi le mani si guardò il volto riflesso nello specchio: aveva anche pianto, dal ridere. Gli occhi erano rossi, la faccia tirata, si vedeva nuove rughe d’espressione. Di un’espressione parossistica e divertita.
Apologia delle funzioni corporee? Bell’idea.
L’ambientazione giapponese esalta le restrizioni sociali, condivise fino ad essere intime, irrazionali.
Ho trovato molto azzeccata l’idea dei vestiti come contenitori e insieme mezzo di oppressione della forza che è nella nostra natura.
Credo che la vita di Kubota non sarà mai più la stessa.
Gran bel racconto!