Assiso sul suo alto trono d’ombra, Razul, principe della landa delle lacrime eterne, tiranno dell’Isola del Teschio, gran negromante del cielo scarlatto, padre del dolore, sciagura dei popoli, distruttore di nazioni, flagello del mondo, Razul sta. Rabbioso.
“P-pietà, mio sire, pietà!”
Le parole piagnucolate del vampiro giardiniere cadono vuote nella sala. Ad un cenno di Razul due guardie infernali lo afferrano, le grida del non morto un lamento sempre più flebile mentre viene trascinato per i corridoi spettrali del palazzo.
Nella sala del trono cala un silenzio teso. Nessuno alza gli occhi, nessuno si muove. Il pericolo aleggia su tutto e tutti. Razul, grave, scende dall’alto scranno e cammina piano per la sala, le mani incrociate dietro la schiena, il volto scuro. Arriva alla finestra, altissima, goticissima, il vetro un mosaico colorato di rosso sangue, verde veleno, nero putrefazione. Guarda giù. Il giardino è in uno stato terribile. Piante contorte, cespugli neri, rami monchi, spine. Non un accenno di verde, non un fiore. Razul sbuffa e si stropiccia la faccia.
“Trovatemi un giardiniere. Uno vero questa volta.”
Il consigliere apre la bocca per parlare, per protestare, un umano, qui, a corte, impossibile! Poi gli cade lo sguardo su una macchia nera sul pavimento, a poca distanza: è tutto quel che resta del suo predecessore, gli zombie non hanno ancora finito di raschiarlo. Deglutisce.
“Come desiderate, mio sire.”