Mi sveglio il mattino successivo alle prime luci, per quanto possibile riposato. Una nuova giornata mi aspetta.
Dunque. Sono sveglio. È mattino, sono tutto intero, un po’ affamato, rintanato in una stalla abbandonata in una zona della città che non saprei piazzare. L’inseguimento di ieri mi ha stremato, sia fisicamente che emotivamente, e nel panico della fuga mi sono infilato nelle vie a caso, cercando solo di scrollarmi di dosso gli inseguitori. Ricordo anche di aver passato un ponte ad un certo punto. Ma è tutto molto, molto confuso.
Il mio primo pensiero va ai vestiti: devo dare meno nell’occhio, per quanto possibile. Elmo e giaccone li appallottolo in un fagotto: non ho davvero modo di farli sembrare qualcos’altro senza distruggerli. Gli stivali sono coperti di fango da ieri e non dovrebbero dare troppo nell’occhio. I pantaloni sono neri, e se tengo i bordi risvoltati le parti catarifrangenti sono nascote. Sono di un tessuto “strano” per i locali, ma non credo che nessuno mi accuserebbe di stregoneria. La maglia è una maglia. Anche qui, un po’ strana, un po’ inusuale. Soprattutto c’è che la gente si ricorda di me: ho bisogno di vestiti nuovi.
Mi guardo un po’ attorno nella stalla. Tra il ciarpame e lo sporco vedo:
– un paio di sacchi di juta, sfondati entrambi
– una ruota di carro spezzata
– assi di legno, paglia un po’ marcia
– un nido di piccioni, guardato ferocemente da mamma e papà piccione
Con una certa fatica riuscirei ad improvvisare dei supporti e arrampicarmi abbastanza per arrivare al tetto. Oppure posso uscire dalla porta di legno da cui sono entrato, ieri sera.
Che faccio?
È un lavoro meticoloso – l’accetta non è così affilata da tagliare con facilità il filo. Ma tutto sommato ho tempo da perdere, e tirare un momento il fiato mi fa bene.
Ci metto un’oretta, ma alla fine stacco le strisce dai pantaloni. Aggiorno l’inventario. E inizio a sentire un certo languorino.
Il cielo è coperto ma non piove. Potrebbe essere… settembre? Il vento è freschino, ma ieri ho lavorato tutto il giorno in maglietta e non ho patito il freddo. Poi però a cena ero contento di stare vicino al fuoco. Prima di scappare dagli armigeri, intendo.
Il piccione – o meglio, la piccionessa – si rivela un avversario formidabile, becchetta, vola dappertutto e fa un discreto casino. Mosso a pietà dall’ardore genitoriale decido di pigliare solo una delle tre uova. I volatili non sembrano impressionati dal mio gesto magnanimo.
Esco dalla stalla con cautela e mi guardo attorno. Il paesaggio urbano qui è certamente cambiato: sono in una zona di case basse e baracche. C’è un’umidità fortissima, e un odore… come di alghe.
Il ricordo della fuga di ieri mi lascia comunque un po’ intimorito, e mi fa strano camminare all’aperto. Ma incontro un carro che passa, carico di masserizie, e nessuno dei due uomini sopra sembrano fare caso a me.
Un po’ a caso e un po’ seguendo il naso trovo la strada verso il fiume. Mi sa che ho attraversato la Senna perché il paesaggio è veramente diverso. Non c’è un vero e proprio argine da questo lato, e il fiume lentamente dirada in una serie di greti paludosi. Devo essere sulla sponda destra (la rive droite), che da quel che ricordo da quando studiavo storia alle superiori è stata a lungo una sorta di porto fluviale naturale, prima di venire bonificata.
E di bonifiche, qui, non si vede traccia.
Cose che vedo:
– zona di attracco e partenza barche
– ad una certa distanza: grande spiazzo con carri stazionati e gente che carica/scarica
– piccolo molo con gente che gestisce cose nell’acqua, forse pescatori
– infilata di case sgarrupate, e una che forse è un po’ meno sgarrupata delle altre: a giudicare dall’insegna che pende deve essere una locanda
Che faccio?
Ogni ipotesi è valida. Idee?
Mi metto davanti all’acqua. Non è molto limpida ma comunque riesco a riflettere sul fatto che sono un po’ nella merda.
Vuol dire uscire dalla città, quindi. Potrebbe essere una bella sgambata, ma si può fare. Mi incammino?
Fin qui, no. E questa zona della città sembra davvero sfilacciata: non credo che da questo lato ci siano. Probabilmente la Senna è un bel fattore difensivo, e il ponte che ho passato è parte delle “mura” della città.
Tiro.
Decido quindi di incamminarmi. Penso sia la cosa migliore, in fondo: la città si è fatta d’improvviso troppo calda per me. Seguo il corso della Senna e VAGHISSIMAMENTE mi oriento. Trovo un punto in cui un affluente si unisce alla Senna, e se non son cambiate straordinariamente le cose in questi secoli questo dovrebbe essere il canale Saint Martin. Che vuol dire che sì, sono sulla rive droite e sto lentamente risalendo, controcorrente. Sto in zona Gare de Lyon, per intenderci.
Cazzo, Gare de Lyon. C’è un ristorante afgano buonissimo. Meglio non pensarci.
Cammina cammina la città si dirada sempre di più. Incontro gente, eh: barcaioli e gente che pesca a fiume. Gente sui carri, gente che va e viene carica di legna, di verdure, di fieno. In un’occasione anche un gruppo di tre tizi armati. Cioè: quasi tutti quelli che incontro hanno un’arma addosso, un coltellaccio o un’accetta o una daga. Ma questi tre tizi danno proprio l’idea di militari. Hanno anche dei pezzi di armatura, tutta di anellini. E poi hanno un’aria, come dire, gonfia, tronfia. Mi vien da pensare che stiano facendo questa strada proprio per farsi vedere. Portano tutti lo stemma del giglio, anche se non si può parlare di uniformi. Comunque, visto il piano, li schivo con fluidità e mi allontano dal loro percorso.
Sto camminando da un’ora buona ormai: le case hanno definitivamente lasciato il posto ai campi, e il paesaggio urbano è diventato paesaggio rurale. I campi sono per lo più spogli attorno a me, c’è segno di una mietitura non troppo distante. Alcune zone sono tenute a maggese e non è raro trovare delle greggi di mucche al pascolo – accompagnate sempre da alcuni pastori e innumerevoli cani. Noto questo: il paesaggio, nel suo complesso, è piuttosto sciapo. Sotto il cielo grigio tutto perde colore: non è la bella campagna accogliente dove fare delle passeggiate con la morosa.
Cazzo, Laurie. Meglio non pensare neanche a questo, va.
Controllo la Senna e noto che ha acquisito limpidezza, le acque ora sono decisamente più chiare.
Che faccio?
Sì, ho un salame.
Inventario: divisa ignifuga (elmo, giaccone, stivali, un guanto), accetta, strisce catarifrangenti, salame.
Mi infratto sulla riva, sotto un salice piangente che dà anche discreta copertura c’è una polla di acqua calma, che posso usare da specchio. Mi spoglio. In effetti sì, fa freschino. È il momento della verità, e ho un certo timore. Una certa anticipazione.
Non mi è semplice distinguere i dettagli, ma riflesso nell’acqua scura del fiume riesco a torcermi e guardarmi la schiena. Al centro delle scapole, allungato lungo la colonna vertebrale, c’è un segno. O meglio, molti segni. Come… macchie? Come segni di U? Di O? Faccio davvero fatica a distinguerli, ma mi pare di capire questo: è una nuvola di segni sulla mia schiena. Sono scuri, come tatuaggi. E no, sono sicurissimo di non avere fatto dei tatuaggi lì.
No, sicuramente no. È tutto molto più disordinato
Sono una serie di tatuaggi, disposti un po’ a caso, che fanno delle U e delle O. Ma non come caratteri tipografici, eh. Diciamo delle forme a ferro di cavallo e delle forme a cerchio (ovale, meglio).
E non sembrano linee continue, come se fossero punti che uno in fila alľaltro formano la U. O magari la linea cambia spessore. Però davvero mi rendo conto di vederci male, magari ci sono ancora dei dettagli che non capisco.
Il colore è: scuro. Nero? Blu? Marrone scuro? Grigio? Tra cielo coperto e fiume in ombra tutto mi sembra un po’ desaturato.
Dopo aver lungamente e gravemente meditato sulla questione, mi pare di arrivare ad una conclusione sola: per il momento non ci sto capendo un granché.
Mi rivesto e mi guardo attorno: come il crescente coro di belati e campanacci mi avrebbe in effetti potuto suggerire, c’è un gregge in avvicinamento – immagino che il pastore stia portando gli animali ad abbeverarsi. Posso aspettarli ed attaccare bottone. O posso tornare sulla strada e proseguire nella campagna. O anche tornare a Parigi, volendo. Che faccio?
[Mezza salama, fame passata]
Giaccone appallottolato attorno all’elmo, gobbo, armato di bastone (l’accetta la tengo al fianco) cerco un contatto con il pecoraio.
Non è una ricerca complicata: un gregge di una cinquantina di pecore sta venendo guidato tra grandi grida e grandi abbai verso il fiume, a poca distanza da dove sono io. Ci stanno due pastori, probabilmente padre e figlio: vestiti di abiti di lana grezza, giacche, scarponi, tutto dello stesso color beige. Anche loro mi sembrano un po’ beige, il padre dal capello un po’ lungo e molto unto, il figlio – avrà tredici, quattordici anni – con una peluria stentata sul labbro dove arriveranno i baffi, un giorno.
Il gregge è accompagnato, oltre che dai due pastori, da un cane e due asini: uno carico di due gerle piene di legna, l’altro di paccottiglia e beni avvolti in grandi coperte.
Mi avvicino cauto, ma mostrando il mio migliore sorriso. I pastori sono un po’ sospettosi, ma cerco di fare il possibile – con i gesti se non con le parole – per mostrarmi innocuo.
Riesco ad avvicinarmi abbastanza per pronunciare qualche parola incerta: pellegrin…us? Pellegrinom? Fedele, viaggio, chiese, amici. Amici?
Loro sembrano vagamente capire il senso delle mie parole, e si aspettano che io giunga al punto. E il punto è…?
[Ovvero: chiedo qualcosa? Dove voglio indirizzare la conversazione?]
Provo a comunicare col pastore: sono un viaggiatore, Parigi, i briganti, cerco lavoro per qualche giorno…
[+5 a lingua, valore attuale 35%]
Grossomodo passa che sono un viaggiatore/pellegrino/tizio che deve andare da qualche parte. E sì, “Parisi, Parisi” con ampi gesti come a dire: per di là.
Le cose poi si fanno complicate. Banditi… non riesco a cavarne molto più che rassicurazioni: non ce ne sono in giro, e poi se ne trovasse sarebbe pronto (e qui indica il coltello che porta alla cinta, con l’aria di chi sa il fatto suo).
Tatuaggi? Boh. Marchi, segni, bruciature, firme: banditi. Si, certo. Non avere paura, eh. No ma come li riconosco? Banditi, segno, banditura. Si capisce, lo vedi. Compris?
E la schiena? Risponde con sguardo bovino. Che è ironico, sostentandosi lui di allevamento ovino.
Lavoro? Travail? Impegno? No, no, Parisi, Parisi. O no. Di là, maisons del collectee. Ma occhio che
La lentezza della campagna mi schiarisce le idee e trovo, se non serenità, almeno un po’ di quiete. Il destino mi ha servito questa mano, tanto vale giocarla al meglio.
Seguo il consiglio del buon pastore e mi incammino verso la maison de collectee. La strada mi porta ad allontanarmi sempre di più da Parigi, e sempre più ad immergermi in una campagna grigia, opaca, slavata. Le nuvole basse minacciano pioggia, ma al posto di scaricare si limitano a stare lì e incombere, un soffitto grigio e un po’ opprimente. Il mio orologio biologico (cioè il mio stomaco) mi avvisa che quando arrivo in vista delle maison la mattinata è ormai finita. Forse anche per questo non vedo molta gente in giro.
La struttura è quella di una grande casa-fortezza, con un unico ingresso largo abbastanza da far passare un carro con i cavalli. Uno dei lati è addossato ad una piccola roggia, e da quel lato la casa ha varie finestre, anche al pianterreno. Gli altri lati hanno solo finestre piccole, in alto.
Attraverso l’apertura principale intravedo un grande cortile. Dentro, una cane, mi guarda curioso.
Un po’ titubante, faccio un passo per entrare: il cane (un bastardo grigio che ricorda vagamente uno spinone) si alza in piedi e fa wof. Ma piano, quasi sottovoce.
Che faccio, entro?
Sembra una fattoria (fortificata), c’è qualche attrezzo sparso, ma rumori non ne sento molti e, se c’è gente, non stanno in giro.
Il cane grigio fa di nuovo woff woff, si alza e si agita, ma la voce gli esce proprio piano.
In effetti dopo qualche minuto esce una tizia. Mi sorprende da lontano l’estrema monocromaticità della figura: è tutta beige e grigia. Anche i capelli sono di un biondo cenere molto sbiadito. È vestita da contadina, avrà una ventina d’anni.
Arriva all’altezza del cane e lo accarezza e poi mi fa un cenno col capo come a dire: beh?
Per l’alias ho accarezzato più volte l’idea di essere in pellegrinaggio o cose simili. Che nome mi invento? Sentiamo delle proposte!
“Oi de la maison! C’est moi, Jacques de Clouseau, bon homme, aidez-moi, oui?”
[+1 lingua, valore attuale: 36%]
Sono emozionatissimo: in qualche modo, storpiando le parole e parlando piano, ci capiamo. Non è una conversazione sui massimi sistemi, non riuscirei a passare per uno dei locali neanche col binocolo, ma è qualcosa!
Mi presento con la mia nuova identità fiammante: Jacques de Clouseau, viaggiatore, pellegrino, di passaggio e in cerca di occupazione. Sono un buon uomo, eh. Gran lavoratore. Non è che avete qualcosa da farmi fare?
Lei sembra un po’ titubante, dice che in questo periodo non c’è molto lavoro qui, che il raccolto è andato e anche i braccianti. Ma se proprio voglio e non mi dà fastidio il cattivo odore, servirebbe una mano con la tintura.
Tutta la conversazione avviene in maniera molto quieta. La ragazza (Marie) parla con una voce molto pacata, molto piano, tanto che un paio di volte le devo dire che non è che non ho capito, non ho proprio sentito. Comunque, lei e gli altri ora stanno pranzando: se per me è ok lasciare accetta e bastone fuori posso unirmi a loro. Che faccio?
Capisco che semplicemente non voleva farmi entrare con gli altri “armato”. Il resto della mia roba (indica il fagotto con l’elmo e il giaccone) posso tenerli.
Non percepisco nessun tipo di minaccia, e quando mi sfilo l’accetta e l’appoggio ad un muro Marie mi sorride e si rilassa visibilmente. Sempre con la sua voce tenue mi fa cenno di seguirla.
Attraversiamo l’aia della cascina fortificata e mi conduce verso un edificio bianco/grigio di legno e pietra. Quando arriviamo la soglia mi fa cenno di fermarmi e aspettare: lei apre e la sento che parlotta pianissimo con qualcuno. Dopo un istante mi fa cenno di raggiungerla.
Entro in una cucina fumosa, dominata da un grande camino accanto al quale è imbandita una tavola scura molto semplice. Sono in sei: Marie, Simonne la sua anziana madre, Luc il marito di Marie, e i loro tre figli: Robert, Martin e il piccolo Pierre, ancora in fasce.
Vengo guardato con un po’ di sospetto da Luc, ma l’atmosfera rapidamente si rilassa. Anzi, dopo un momento mi ritrovo seduto al tavolo con loro, tempestato di domande: da dove vengo, che paesi ho visitato, che notizie porto. Mi parlano tutti in maniera molto quieta, quasi sottovoce, ma si vede che sono curiosi e felici di vedere una faccia nuova.
Mentre decido quale storie inventarmi (aiuto!) noto alcune cose: la cucina è appunto fumosa, un po’ tutto è coperto da uno strato di fuligine. Anche lontano dal fuoco le cose sono un po’ grigine, un po’ beige, un po’ desaturate. Mi colpisce che anche la zuppa che mi danno è di un colore spento. Peraltro non è un granché da mangiare, e pure un po’ fredda, ma a furia di stare a spasso per la campagna mi è venuta una fame che mangerei anche la cenere.
Ah sì, chiedo senza vergogna il bis e Marie mi riempie il piatto sorridendo. Devo decidere:
– cosa dire su di me, per rispondere alle domande che mi fanno
– se proseguire nella richiesta di lavoro
– se fare altre domande
Sono tutti interessatissimi ai miei racconti. Quando cito Mordor Luc, il capofamiglia, fa un cenno d’assenso e si accarezza la barba grigia con fare pensieroso come dire “gran posto, ci son stato”. Peraltro, appurato che sono straniero – io, nato e crescuto nella ville lumiere – si rivelano estremamente pazienti quando incespico sulle parole (che vien comodo anche quando devo prendere tempo per inventarmi dei dettagli).
La storia strappalacrime del mio pellegrinaggio li trova altrettanto interessati, e alla fine mi pare che mi vedano anche con occhi diversi: devo aver fatto breccia nei loro cuori.
Alla fine del pasto vengono servite noci e mele essiccate, “per addolcire la bocca”. Dalle feste che fanno i ragazzini capisco che non deve essere un’occorrenza così comune.
Con quella che spero essere un’aria dignitosa chiedo se posso fermarmi qualche giorno a riposare da loro in cambio di lavoro. Mi pare di capire che l’attività nei campi sia ferma in questo momento, e infatti la maison è spopolata di braccianti. Oltre alle cose piccole (fare un po’ di legna, pulire la stalla, strappare l’erba dall’orto, intrecciare il vimini…) l’attività principale è la tintura. Mi dicono che, se non ho problemi con la puzza, quella è la roba su cui avrebbero bisogno.
Dopo pranzo Luc gioca un po’ con i figli, io approfitto per fare due passi e guardarmi attorno. Su una delle mensole della cucina ci sono varie candele. Sono… grigie? Molto irregolari, e la cera è sicuramente diversa da quella a cui sono abituato. Comunque mentre non guardano ne imberto un moncone, grande quanto l’unghia del mio pollice. È unto al tocco, sicuramente non è cera. Mi annuso le dita che ora odorano vaghissimamente di animale.
Dopo poco Luc e Robert (il figlio maggiore) escono dalla cucina e mi fanno segno di seguirli. Vado con loro nella zona della tintura, una stanza dall’altra parte dell’aia, di fianco ad una piccola stalla. Nell’anticamera della stanza di tintura vera e propria sono accatastate montagnole di tessuti, lino e lana, più vari barilotti e piante appese. Luc spiega il processo con un certo orgoglio. Sono due passaggi, di cui il primo si fa in estate: hanno raccolto un piccolo arbusto (“c’est pastel, compris?”) in parte l’hanno messo essiccare e in parte l’hanno lavorato fresco.
I dettagli me li perdo via, ma mi par di capire che l’abbian fatta bollire, raffreddare, ribollire con degli altri ingredienti, e poi… filtrata? Seccata? È tutto un po’ confuso, ma il frutto del lavoro di Luc è sotto i miei occhi quando apre uno dei barilotti: è pieno di una polvere fine, di una azzurro molto spento, che mi invita a toccare. Le dita mi restano colorate di questo color indaco molto sciapo.
La seconda fase della lavorazione inizia ora: Luc e Robert prendono dei panni, mi fanno segno di prepararmi, e aprono la porta. Nella stanza oltre ci sono due larghi fuochi circondati da treppiedi e sostegni. Alcuni catini, pieni di liquido azzurro e panni in immersione, stanno sui fuochi e bollono piano, mentre altri catini, posati sul pavimento, sono pieni di un liquido più giallo, in attesa.
Muovendosi rapidamente, Luc va verso uno dei catini intonsi, ci getta una dose di polvere azzurra del pigmento e sposta il tutto sul fuoco. Dà una rimestata con un bastone e poi torna da me, gli occhi strizzati.
“C’est terrible, terrible, mon dieux”
Mi pare di capire che bisogna rimestare in continuazione i panni nell’acqua gialla (che non sarà solo acqua?) con il pigmento, fino all’ebollizione e poi ancora per un po’, finché il colore non si è prima sciolto, e poi non è del tutto penetrato nel panno. La difficoltà sta nei fumi che salgono dai catini. “Le souffle du démon” dice Luc. Ha gli occhi gonfi, la faccia contratta, è provato e anche un po’ imbarazzato nei miei confronti: non vorrebbe propormi un lavoro così duro e così poco dignitoso.
Che faccio: mi tiro indietro e chiedo un altro lavoro? O provo a tingere?
Non sarà qualche esalazione puzzolente a fermarmi, via. Ho anche la candela di proto-cera in tasca, da usare come arma segreta, alle brutte (non vorrei fare figuracce se capiscono che l’ho presa da loro, ma è davvero un pezzettino minuscolo quindi vabbè, pace).
Aspetto sull’uscio della stanza della tintura, e quando Luc mi dà il segnale mi preparo a lanciarmi verso il catino con la consegna di battere e rimestare con il bastone, finché resisto.
Tre, due, uno: vado.
All’inizio trattengo il fiato, d’istinto. Arrivo davanti al catino, immergo il bastone nell’acqua che da giallina si sta tingendo di azzurro, giro con forza. Vado avanti così finché resisto, poi finisco il fiato e viene il momento di respirare. Butto fuori l’aria vecchia, mi preparo allo shock di quella nuova, inspiro e…
E niente. Cioè, c’è un vago, vaghissimo odore acre, ma finisce lì. Respiro tranquillo. Giro la tintura, rimesto per un po’, cinque minuti, dieci minuti, mezz’ora. Ogni tanto mi volto: Luc e Robert mi guardano increduli, dalla soglia. Una volta Robert mi viene di fianco, per controllare: prende una boccata da sopra il catino e quasi sviene, barcolla fino alla porta, nauseato. Io faccio spallucce e continuo a rimestare.
Il pomeriggio prosegue così: Luc che mi dà indicazioni, Robert che si occupa di altre piccole faccende. Ad un certo punto passa anche Marie con il bebé: parlottano, ridono, poi Marie mi porta dell’acqua da bere e mi dice qualche parola consolatoria (che non capisco, ma il tono è appunto positivo).
Arrivati a sera Luc raccoglie i frutti della (mia) fatica: abbiamo tinto una quarantina di panni, che ora sono stesi ad asciugare. Mi pare di capire che si dovrà fare qualche altra passata però Luc pare molto fiero. “Ici, regarde: magnifique” mi dice mentre rimira uno scampolo di lana di un blu pallidissimo, slavatissimo “Trés intense, magnifique!”. Mi dà una pacca sulla spalla, raggiante. Poi chiama la moglie, dall’altro lato dell’aia, per avvisarla che abbiamo finito. Ma lo fa… sottovoce. Cioè: si porta le mani alla bocca e sembra gridare a pieni polmoni, ma la voce gli esce flebile, attutita. Comunque Marie sembra averlo sentito: lo saluta con la mano. Tra poco ci sarà la cena.
Seguo il flusso o ho altri piani?
Tutte ottime ipotesi.
Giusto, giusto: mi son fatto prendere un po’ la mano dall’entusiasmo.
È un buon piano, devo solo capire quando è il momento di tirare fuori il fatto bandit
Faccio qualche domanda a Luc sul processo di tintura, e intanto annuso un po’ in giro. Il pigmento azzurro sa vaghissimamente d’erba, di fieno, non è spiacevole. Non resta che il liquido giallo, la base di partenza. Chiedo e Luc mi dice qualcosa che non capisco bene, e alle mie domande sembra sempre più imbarazzato. Frustrato dalla situazione, mi porta in una stanza attigua, dove c’è una grossa botte scoperchiata, piena per metà di questo liquido, giallo scuro, un po’ schiumoso. Nella stanza c’è in effetti un odore un po’ pungente, come di ammoniaca. A questo punto Luc, senza troppe cerimonie, si avvicina alla botte, si cala le braghe e inizia a pisciarci dentro. Io sono preso un po’ in contropiede, lui intanto finisce, si scrolla, sorride e mi fa: “tu compris?”
“Oui, oui, je compri. Merde.”
“No! No merde: pisse!”
Ogni ipotesi è buona. Altrimenti posso chiedere direttamente a loro, a cena.
Ora che ci faccio caso…
C’è un momento prima di cena dove tutti si fanno un momento di cazzi propri (ho il sospetto che Luc stia scopando con Marie). Io faccio due passi nel bel tramonto campagnolo, che scolora il cielo grigio nei toni del rosa pallido, arancione tenue, azzurro carta da zucchero.
Quando mi sono allontanato abbastanza dalla cascina da essere sicuro che non mi veda e non mi senta nessuno comincio a fare casino: grido, batto le mani, batto delle pietre tra di loro.
Eh.
Sto diventando sordo, pare. È tutto… ok? I suoni sono giusti, ma è come se avessero girato la rotella del volume.
Sugli odori non so bene come verificare. Cioè, cosa fare altro oltre l’esperienza con la tintura. Comunque… boh, mi infilo le dita sotto le ascelle e poi le annuso. Annuso un po’ la terra, l’erba. E ottengo gli stessi risultati: gli odori ci sono, ma meno. È tutto un po’ attutito.
Provo a fare delle flessioni, dopo una decina inizio a sentire i muscoli che lavorano, dopo una ventina iniziano a farmi male le braccia, a trenta devo fermarmi.
Provo a correre a velocità sovrumana. Sono in forma, ma dopo qualche minuto di sprint ho il fiatone e i battiti a 150.
Provo a balzare oltre le cime degli alberi, trattenere il respiro per mezz’ora, allungarmi, lanciare i raggi dagli occhi, dalle mani, dal culo.
“klaatu barada nikto”
AAAAAH!
Dopo un tre quarti d’ora buoni di tentativi inizio a finire le idee. Però ho fatto dell’ottimo esercizio aerobico.
E comunque, boh. Non voglio illudermi, e visto il carico emotivo qua l’autosuggestione è imperante. Però, non so come dire… diciamo che, a voler proprio ben vedere, mi sento un po’ diverso. Ma è anche vero che tutto è attutito, qui, quindi magari è quello. Diciamo che è come se sentissi un leggero ronzio, ma è così debole che mi sfiora appena la coscienza. È come l’intenzione di un rumore.
Il sole intanto prosegue nella sua discesa, a brevissimo sarà buio.
Decido che a) si è fatta una certa e b) non sto cavando molto da questa storia del super eroe decido che è meglio tornare alla cascina.
Rientro e trovo la cena in preparazione. C’è un ottimo umore nella famiglia, e si vede che mi hanno preso tutti in simpatia. Tutti, tranne Simonne, l’anziana madre di Marie. È una vecchia silenziosa e arcigna, probabilmente arteriosclerotica, piena di acciacchi e di cattiveria verso il mondo. Simonne non dice molto, a pranzo quasi mi ero dimenticato di lei, ma ora a cena ho la sensazione che mi guardi fisso con i suoi occhietti crudeli.
Il resto della famiglia invece mi tratta con calore, e a una certa Marie mi dà anche in mano Pierre, l’infante. Io lo prendo in braccio con un certo imbarazzo, e in questo frangente sono felice per i sensi attutiti: Marie lo tiene pulito, ma il bambino è letteralmente avvolto in fasce di lino…
Durante la cena mi esercito nel fare conversazione e provo a buttare lì il discorso banditi.
Proprio fisicamente distante? Ci provo, per quanto permesso dagli ambienti comuni.
Comunque, la mia conversazione va…
[+1% linguaggio, valore attuale 37%]
In un paio d’occasioni faccio capire, soprattutto a Luc, che sono un po’ preoccupato per i banditi: a Mordor i costumi sono diversi e non vorrei avere guai.
Lui mi spiega che non c’è da avere paura. Banditi ce ne sono, eh, e vale la solita legge: chi è bandito da una città non ha diritti, fuori dalle mura chiunque lo può uccidere impunemente. Non che sia una cosa da cristiani, eh, però la legge dice quello.
“E dentro le mura della città?” chiedo io.
“Ah, je ne se pas vraiment.”
Mi pare di capire che le leggi non sono esattamente chiare. Se sei stato bandito da una città, in quella sicuro che non fai una bella fine. Ma se poi vai in un’altra città? Dipende. Se le due città sono in lotta, magari ti accolgono come un eroe. Ma se le due città sono amiche, o se ti hanno bandito perché mangiavi il cuore dei bambini, magari non ti accolgono a braccia aperte.
E come ricondosco i banditi?, chiedo ancora.
“Pour le signe.”
“Le signe?”
“Oil. Le signe du bandit.”
La gente viene bandita per lo più in contumacia. Ma quelli che vengono acchiappati, e che non ammazzano, li buttano fuori marchiati. “E che cos’è il segno?” insisto. “Le signe, le signe, comme pour les vaches. Ici” si indica le braccia “ou ici” si indica il petto “ici” si batte la schiena “ou, si c’est très grave, ici” e si indica la faccia.
La serata procede poi senza intoppi: prima della cena viene recitata una preghiera, molto semplice e molto sbrigativa. Si fanno tutti il segno della croce e ripetono delle preghiere, in latino. I bambini mi prendono un po’ in giro perché non so le preghiere, ma bonariamente. Poi mi capita di incrociare lo sguardo con la vecchia, che mi fulmina. Torno a guardare davanti a me e faccio la faccia contrita.
A cena vengono servite patate e, a quanto capisco, le prime zucche della stagione, arrostite. Si beve anche questa birra sgasata, a cui sto iniziando a fare un po’ la bocca – comunque resta cattiva, va detto. Dopo cena la famiglia si riunisce attorno al fuoco, i bambini giocano, Luc intaglia dei cucchiai e altri piccoli oggetti di legno, Marie e l’anziana madre fanno la maglia. Si fa rapidamente una certa e i bambini, sovreccitati, chiedono qualcosa a Luc. Una storia? Il padre si fa un po’ desiderare ma è chiaro che si sta godendo le attenzioni, e con grande gaudio dei bambini si alza e prende una scatola da una cassapanca.
“Quelle histoire voulez vous?”
“René le renard! René le renard!” gridano. Anche Marie si unisce al coro. Solo la madre mantiene un contegno sdegnoso.”Alors” Luc si mette tra noi e il fuoco, e apre la scatola così che il coperchio ci nasconda il contenuto. “L’histoire de René, le renard”. Ovvero Renato la volpe.
“Tanto tempo fa, in un regno lontano, c’era una regina molto triste” Luc estrae un pupazzetto di legno che ha in testa una piccola corona fatta di petali di fiori gialli, secchi. “OOOH COME SONO TRISTE” dice la regina. Tutti ridono.
“Suo marito il re si disperava” Luc estrae un altro pupazzo, molto simile all’altro “la mia regina è COSÌ TRIIIISTE”. Luc fa la voce lamentosa del re, tutti gli fanno il verso tra gran risate. “Se solo qualcuno sapesse fare ridere la mia regina, lo coprirei d’oro”.
“La notizia si diffonde per tutto il regno: un grande premio a chi riuscisse a far ridere la regina. Allora tutti vanno a corte” Luc si alza in piedi e comincia a marciare sul posto “ci vanno i nani buffoni e ci vanno gli acrobati, ci vanno i maghi e ci vanno i preti, ma nessuno riesce a far ridere la regina” Riprende la regina, di nuovo grandi lacrime.
“Finché un giorno una voce risuona tra le stanze della reggia.” Qui il pubblico freme, si capisce che sta per arrivare l’eroe. “Di chi è questa voce? chiese il re. Di chi è questa voce? chiese la regina. Di chi è questa voce? chiesero tutti i castellani.” I bambini non riescono a contenersi e gridano “C’est moi! René le Renard!” Tutti ridono e Luc tira fuori il pupazzetto di René.
Mi manca il terreno sotto i piedi. È un pupazzo di una animaletto fatto con una lattina di coca cola.
Che faccio? Gli salto addosso? Interrompo? Sbrocco?
PRENDO LA VECCHIA?!?
Col cuore a mille, ascolto il finale della storia. René promette che riuscirà a fare ridere la regina entro tre giorni. Il primo giorno René fa le capriole, i salti, cammina sulle pareti. La regina smette di piangere.
Il secondo giorno René fa le puzze, i rutti, i borborigmi e tutti i rumori degli uccelli. La regina ha un lieve sorriso.
Il terzo giorno René si nasconde in tutti i posti, dentro la corona del re, tra le ostie del vescovo, nel fossato del castello e nella brocca dell’acqua. Quando la regina se lo trova tra le coperte finalmente si lascia andare in una grande risata liberatoria.
Non… non mi è chiaro.
Comunque il re è contento perché finalmente la regina è felice, dà il premio a René e tutti vissero felici e contenti.
La storia finisce e Luc inizia a raccattare i pupazzi, tra gran proteste dei bambini.
“Aaaaah, c’est tres bon, oil? C’est un prix, Marie l’a gagné par un tarte. N’est pas, cherie?”
Marie fa un po’ la vergognosa, cerca di minimizzare. Pare che nel paese di Saint Stephane, durante la fiera, ci fosse questa competizione. L’anno scorso Marie ha preparato una ricetta di sua invenzione e…
Bussano.
Bussano da fuori, al cancello. Una voce di uomo, grida qualcosa. Luc esce dalla porta della cucina e grida di rimando. “Chi siete? Che volete di notte?”
“Aprite senza storie, in nome del re!” E poi, una seconda voce: “Questione di banditi!”
Che faccio?
[Quello che hai letto qui sopra]
[Ora stacco e vado a casa, sotto la pioggia]
[Ahah, scusa, pensavo che tutti capissero. Luc ha detto “molto bello, vero? È un premio, l’ha vinto Marie per uno sformato. Vero tesoro?”]
>Faccio finta di nulla e assecondo lo stupore generale.
>Cerco di levarmi dalla vista e magari se c’è un uscita sul retro esco
È un conflitto? @the Dans intendeva che sto a vedere cosa vogliono le guardie?
@GM : è impossibile “levarmi dalla vista” senza che se ne accorgano, siamo tutti nella stessa stanza. Nel caso proseguo lo stesso e mi do alla fuga?
E allora CONFLITTO!
Una parte di me vuole vedere cosa vogliono le guardie, una parte di me vuole levare il belino immediatamente. Roll…
[+1 punto sbrocco, prossimo tiro sbrocco = 3]
Le mie cose le ho raccolte dopo che sono rientrato dalla passeggiata: giaccone appallottolato, elmo, accetta, avanzo di salame. Sta tutto in un mucchio su una cassapanca, qui in cucina.
Luc, scocciato ma anche un po’ preoccupato, grida alle guardie di aspettare un momento. Prende una lanterna con dentro una candela, degli zoccoli di legno e fa per uscire. Incrocia il mio sguardo e, secondo me, pensa a qualcosa, è sfiorato dal dubbio. Forse non avrei dovuto fargli tutte quelle domande sui banditi. O forse è solo paranoia mia. Per attraversare il cortile e arrivare al cancello gli servirà mezzo minuto, un minuto al massimo se va pianissimo.
La vecchia deve essere un po’ sorda perché si è fatta ripetere da Marie cosa hanno detto le guardie, e quando questa gliel’ha riferito si è limitata a dire “bandit, bandit”. E a guardarmi malissimo.
I bambini sono sovreccitati dalla novità.
Come intendo muovermi? Seguo il piano di @GM ? Purtroppo non c’è un’altra uscita, perché la cascina è fortificata e l’unico ingresso che ho visto è quello principale. Posso salire al piano di sopra, andare nei locali attigui, andare nel cortile.
Avevo notato che:
“La struttura è una grande casa-fortezza, con un unico ingresso grande abbastanza da far passare un carro con i cavalli. Uno dei lati è addossato ad una piccola roggia, e da quel lato la casa ha varie finestre, anche al pianterreno. Gli altri lati hanno solo finestre piccole, in alto.”
Per farlo devo uscire in cortile o, forse, passare dal piano di sopra. Qui al pianterreno sicuramente non sono collegate: c’è una cucina, un altro stanzino che fa da deposito, un paio di nicchie (chiamiamole cabine armadio, ma per le provviste). Poi, credo, ci deve essere un piano di sotto con cantina/nevaia.
Ha senso che siano isolati perché comunque la famiglia di Luc vuole potersi fare i cazzi propri anche quando ci stanno i braccianti. Al piano di sopra ci stan le stanze dove si dorme.
Intanto Luc è uscito dalla cucina e si è incamminato. Devo scappare. Come?
Luc è appena uscito dalla porta, lanterna in mano, e sta andando verso il cancello per vedere cosa vogliono questi.
Se seguo Luc vado addosso alle guardie. E se le guardie stanno cercando me…
Voglio che lui non mi veda? Perché in questo caso è dura, devo aspettare che lui faccia un po’ di strada per non sentirmi che cammino. Il cortile è molto buio (il sole è tramontato da parecchio) e senza una luce è a) molto difficile che mi vedano e b) molto difficile vedere dove vado io
Cmq faccio su le mie cose. Marie sembra un po’ preoccupata, le guardie non sono mai un buon segno, e non presta molta attenzione a me. La vecchia invece non mi scolla gli occhi di dosso.
Comunque, sono pronto. Esco? Chiamo Luc? Sgattaiolo?
Lascio che Luc faccia qualche passo nel cortile e poi lo seguo, fagotto di roba sotto un braccio, accetta nell’altra mano. Lui è facile da seguire perché ha la lanterna, che gli proietta attorno un cerchio di luce. Io però cammino nel buio e, per quanto stia attento, un po’ di rumore lo faccio. O Luc non mi sente o mi senta e fa finta di niente.
Intanto dal cancello arrivano rumori violenti: battono i pugni sul legno e continuano a gridare. “Alors!” e “Nom du roi!” Luc non sembra felice della cosa ma neanche terrorizzato. Arrivato al cancello principale si apre lo sportellino per guardare fuori e, dopo un momento, posa di lato la lanterna e sposta il pesante palo che sta di traverso. Il portone viene aperto.
Dall’altro lato ci sono tre uomini, due a cavallo, il terzo è a piedi e tiene le briglie del suo cavallo in mano. I due in sella hanno delle lanterne accese. I cavalli sono nervosi, scartano. I cavalieri sono armigeri e, sulla cotta d’arme, portano tutti il giglio di francia, giallo su sfondo blu.
Quello a terra, che evidentemente è quello che batteva sul portone, accoglie Luc con un’imprecazione. Luc sembra calmo e mantiene un atteggiamento molto sottomesso. Iniziano a parlarsi.
Del dialogo io capisco…
…molto poco.
[+5 lingua, valore attuale 42%]
La parola “bandit” la capisco, ma poco altro. Dice delle cose, e poi fa delle domande a Luc, che scuote la testa. La conversazione sembra andare a scemare, quando uno dei due a cavallo dà un ordine (lo capisco dal tono). Quello a piedi lo guarda malissimo, e poi con grande stizza va dal terzo, gli strappa di mano la lanterna, e si volta. Capisco che ha intenzione di entrare nella cascina. Lo capisce anche Luc, che gli si para un momento davanti e mi fa guadagnare dei secondi. Che faccio?
Con mio orrore vedo che succede questo: il tizio appiedato entra, gli altri restano fuori, in sella.
Il tizio appiedato, con un discreto scazzo, inizia a fare il giro della cascina, seguito da Luc. Parte dalla sinistra, dalla porcilaia. Entra, sta dentro qualche secondo, esce. Poi entra nella zona tintura. Io sono dal lato opposto: fienile/stalla.
Il cortile è sostanzialmente vuoto, non ci sono cose grosse dietro cui nascondermi.
Che faccio?
Tutta la cascina è a due piani: senza una scala è impossibile arrivare al tetto (e sicuramente non al buio e senza fare rumore)
La guardia entra nella tintoria, Luc resta fuori con la sua torcia, io entro nel fienile. La porta cigola e faccio un minimo di rumore, ma non sento grida o segnali d’allarme.
Il fienile è… estremamente buio. È la prima volta che sono dentro e non so bene cosa aspettarmi.
Situazione finestre: ricordo che questo lato della cascina, al primo piano, aveva delle finestre. Che faccio: provo a cercare a tentoni un modo per salire al piano di sopra? O mi nascondo dietro a qualcosa?
Ho in testa i fienili moderni, quelli che si vedono in campagna, pieni di rotoballe. L’ambiente qui è un po’ meno standard ma parto da quell’idea lì: il fieno sta di sopra, per non prendere umido.
Ho il cuore a mille ma cerco di calmarmi e, pianissimo, inizio a esplorare l’ambiente alla ricerca di una scala. Purtroppo nascondendomi mi sono del tutto tagliato fuori da quello che sta avvenendo in cortile, e non ho modo di sapere a che punto sta la guardia.
Gli occhi si abituano, un po’. Molto poco, perché, appunto, è notte e sto al chiuso, e poi perché pago lo scotto dei sensi attutiti. Nel silenzio assoluto dell’ambiente mi pare ancora di sentire quel lievissimo ronzio che già avevo notato oggi pomeriggio. Ma adesso, davvero, non è il momento.
Frugo, cautissimo. Trovo la scala, a terra, provo a sollevarla. Provo a farla ruotare piano piano per portarla in verticale. Per forza di cose, sbatacchio. Mi fermo e aspetto di vedere se mi hanno sgamato. Niente. Per il momento niente.
Ricomincio. Tiro su la scala. Riesco e adesso ce l’ho davanti a me. È una scala a pioli, che tengo verticale con due mani. Per farlo ho posato la mia roba (giaccone, accetta). Alla cieca, provo ad appoggiare la scala in giro: muro, muro, muro, TUNK.
La scala ha trovato qualcosa di solido. Cerco l’inclinazione giusta e dopo qualche prova mi sembra di averla trovata.
Che faccio? Salgo alla ricerca di una finestra? Spio dalla fessura della porta per vedere dove sono? Provo a barricare la porta? Altro?
La scala era a terra, orizzontale. L’ho presa e tirata su, facendo un po’ di casino. Alla cieca ho provato ad appoggiarla in giro, finché ho trovato qualcosa che sembra all’altezza giusta. Ma, appunto, alla cieca.
Sollevo la scala, che striscia sul qualcosa a cui è appoggiata. Sembra una roba di legno, a giudicare dal rumore. Sopra non incontra resistenza, la sollevo di un mezzo metro buono.
Da fuori non sento nulla, ma l’unica cosa che potrei sentire sarebbero grida o rumori molto forti. Per avere un’idea devo andare alla porta e provare a spiare dalle fessure.
Prendo la mia roba e salgo piano piano. Finalmente il fienile si può dire tale: sono su un ripiano, una sorta di soppalco, strainvaso dalla paglia, che è ammonticchiata un po’ dappertutto, o forse c’è un ordine che a me sfugge. Sollevo la scala e proprio quando la poso sulle assi davanti a me iniziano le grida.
Mi arrivano da fuori, attutite, e non capisco le parole. Ma il tono strepitante e cattivo non lascia dubbi: è la vecchia. La vecchia sta facendo il diavolo a quattro.
Attendo.
Vociare indistinto, rumore di zoccoli di cavalli, e poi grida. Luc parla, mi arriva un “non, non”, e poi un’altra voce che dice “bandit”, e anche “ou”
poteri… boh? 🧙🏻♂
le mie scelte immediate sono: restare nascosto; cercare una via di fuga; scendere a vedere che succede; provare a uscire; altro?
Quindi che faccio, resto immobile?
con grande cautela esploro un po’ l’area. Se c’è un pertugio dal lato interno è coperto dalla paglia. Mi pare di vedere un fiiiiilo di luce penetrare dal lato esterno, ma anche questo è coperto dalla paglia.
intanto da fuori mi arriva qualche altro rumore, la situazione si evolve. Viene rovesciata roba, il bebé inizia a piangere, sento la voce di Marie. Un cavallo nitrisce a lungo. È difficile capire di preciso, ma ho l’impressione che stiano controllando vari pezzi della cascina, e che adesso i controlli siano meno superficiali di come li faceva il tizio all’inizio.
C’è. C’è anche un mucchio di paglia, davanti, ma riesco a trovare la rientranza del muro. Inizio a spostare la paglia, mentre le voci si avvicinano. Per fortuna faccio poco rumore, e libero buona parte della finestra. È una semplice intelaiatura di legno, con degli scuri (niente vetro, per capirci). Si apre verso l’interno, e proprio quando mi pare di aver liberato abbastanza posto sento aprire la porta del fienile, sotto, e la stanza viene inondata dalla luce di una lanterna. Una voce maschile, incazzata, grida “Bandit! Bandit!”
È il momento di prendere una decisione:
– soluzione veloce: apro la finestra e mi lancio giù. Sicuramente faccio casino, sicuramente non riescono a fermarmi
– soluzione lenta: sto fermo e spero che non salgano di sopra. Se non lo fanno poi ho tutto il tempo, ma se lo fanno mi stanno addosso.
O anche altro, nel caso.
Dalle voci capisco che è una guardia sola, che entra e fruga un po’. La vedo che con la torcia illumina un po’ in giro, e cerca di illuminare il più possibile il piano di sopra, ma io resto ampiamente in ombra. Senza una scala è chiaro che sono inaccessibile. Lo sento mormorare distintamente “merde” e poi esce, portandosi via la luce e sbattendo la porta.
Se hanno rinunciato a cercarmi, sono salvo.
Se è andato a prendere un’altra scala, tornerà tra qualche minuto.
Che faccio?
[non è stato specificato quando sono salito. È realistico che abbia fatto la scala a pioli con il fagotto (giaccone, elmo, salama) e l’accetta?]
[me l’ero perso! Il fagotto allora me lo sono tirato su come tale, sotto un braccio, perché giacca e elmo hanno ancora il problema dell’alta visibilità e non avrebbe avuto senso metterli ora. L’accetta è qui con me.]
Apro piano la finestra e provo a guardare in giro. Sotto di me, dopo un salto di tre/quattro metri, c’è un mezzo metro di terreno e poi un canale: sento l’acqua che scroscia un pochetto. Il cielo sopra di me è limpido e stellato. La campagna è buia.
Il fagotto è integro, salame compreso.
La discesa è, purtroppo, ardua: la cascina è costruita proprio per non avere il problema degli assalitori che scalano, e quindi la parete è tremendamente scarsa di appigli.
Non ho modo di seguire da qui le evoluzioni di quello che succede in cortile, sono lontano. Se tornano con una scala me li trovo praticamente addosso, tra quando entrano alla porta e quando riescono a salire sul soppalco è una manciata di secondi.
Attendo.
…
Attendo
Piano, piano, piano.
Faccio cadere il fagotto. Frup.
Faccio cadere l’accetta. Thump.
Nessun segnale d’allarme.
Bon, è il momento. Mi calo fuori fino a quando non mi sto tenendo con le mani alla finestra, completamente penzoloni. Tra i miei piedi e il terreno c’è ancora un salto. Un metro? Due?
Mollo?
Mollo.
Vado giù a piombo, dritto in verticale. Finisco sul terreno morbido ma a causa della caduta piego le ginocchia in avanti, schiantandole contro il muro della parete. Ahia.
E poi cado all’indietro. Non ho proprio modo di fermarmi, non ho appigli. Cado all’indietro e finisco nell’acqua.
Sono infreddolito, bagnato, dolorante, spaventato. Faccio su il mio fagotto e la mia cazzo di ascia e…?
(bravo, hai fatto il guaio, e ora la scarichi sugli altri)
(scherzo eh, 🤣, prima che ti prendi ammale)
(era una delle possibili uscite. Non hai valutato convincerli a parole o a colpi d’accetta)
Passo la notte in fuga: alla cieca, infreddolito, spaventato, disorientato, ma vivo.
Corro, e quando mi si spezzano le gambe dalla fatica rallento il passo e continuo a muovermi, per ore. La vista mi si annebbia – e comunque non c’è molto da vedere, nella notte e in campagna. La fatica mi rincoglionisce, ed entro in uno stato quasi di ipnosi. I dettagli del mondo attorno a me si fanno via via più sfocati, e quasi mi dimentico perché sto scappando. Ma l’importante è scappare.
Succedono cose, attorno a me. I suoni diventano sempre più attutiti, e si fa largo nella mia coscienza un fastidioso ronzio, come un tinnito.
Il freddo mi fa perdere sensibilità alle mani, mi tocco la faccia e mi pare di toccare una porcellana.
Stremato, addocchio una piccola macchia di alberi dove potermi riparare. Più che distendermi crollo, e devo lottare contro la coscienza per tenermi sveglio. Resisto per un po’, cercando nella rabbia e nella paura un po’ di carburante ma alla fine la spossatezza vince. Alle prime luci di un’alba sbiaditissima, svuotata di ogni colore, mi addormento.
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