Ho un po’ tentennato prima di scrivere la recensione di questo libretto che mi ha regalato F., un po’ perché è molto breve (34 pagine) e un po’ perché per parlarne tocca essere seri, e io sono fondamentalmente un giullare. Ma vabbè, proviamo.
“Elogio della lettura e della finzione” è il discorso tenuto nel 2010 da Mario Vargas Llosa quando gli venne consegnato il Nobel per la letteratura. Il testo si può dividere in tre sezioni: l’eponimo elogio a lettura e finzione; una carrellata autobiografica per presentarsi e inquadrare il percorso fatto; qualche considerazione geopolitica.
Partiamo dall’inizio:
Così come scrivere, leggere è protestare contro le ingiustizie della vita. Chi cerca nella finzione ciò che non ha, dice, senza la necessità di dirlo, e senza neppure saperlo, che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto, fondamento della condizione umana, e che dovrebbe essere migliore.
solo dopo aver trascritto la citazione mi sono accorto che era anche riportata in copertina
Questa è una questione che mi sta discretamente a cuore. Ai tre gatti che seguono il mio blog dovrebbe essere chiaro che ho un certo debole per il fantastico, l’immaginifico e il surreale. In questi casi si usa una brutta traduzione di un termine inglese (“escapism”, da cui “escapismo”) per indicare quelle letture che ci permettono appunto di scappare dalla realtà. Non che Vargas Llosa stia facendo l’elogio del fantastico, lui si riferisce in senso lato alla “fiction”, cioè storie inventate, in contrapposizione alla saggistica
E però le sue parole mi toccano, con dolore. Lo vedo, è palese ogni volta che devo scegliere il prossimo libro da leggere. Se sono in un periodo di instabilità emotiva, se sono triste o preda dell’ansia o solo stanco, ecco che mi rivolgo al fantastico, all’immersivo, a pagine che mi promettono una fuga dalla realtà. Questo mondo, appunto, non mi basta.
Sulla seconda parte, quella autobiografica, ho poco da dire: Mario Vargas Llosa è un personaggione che ha vissuto in tante nazioni diverse e anche mi fa un po’ rosicare d’invidia. Riporto solo questo estratto, significativo:
Di tutti gli anni vissuti in Spagna, ricordo come esaltanti quei cinque trascorsi nell’amata Barcellona agli inizi degli anni Settanta. La dittatura di Franco era sempre in piedi e ancora ordinava fucilazioni, ma era già un fossile appeso a un filo, e soprattutto, in campo culturale, incapace di mantenere il controllo di un tempo. Si aprivano spiragli e fessure che la censura non poteva tamponare e attraverso di esse la società spagnola riusciva ad assorbire nuove idee, libri, correnti di pensiero, valori e forme artistiche fino a quel momento proibite in quanto sovversive. […] Divenne la capitale culturale della Spagna, il luogo dove bisognava stare per respirare in anticipo la futura libertà.
E adesso la gente va sulla Rambla a sbronzarsi
Sul finale il nostro si lancia in qualche prevedibile e dolorosa considerazione sullo stato politico mondo. A quasi dieci anni di distanza sono parole non solo ancora valide, ma forse ancora più valide di allora, almeno per lo scenario del mio quotidiano:
Detesto ogni forma di nazionalismo, ideologia – o meglio, religione – provinciale, di basso profilo, escludente, che limita l’orizzonte intellettuale e dissimula nel suo seno pregiudizi etnici e razzisti, perché trasforma in valore supremo, in privilegio morale e ontologico, la casuale circostanza del luogo di nascita.
vedi alla voce: “se fossi nato in Africa sarei nero pure io”
E poi, lanciato, dice una cosa interessante: parla della differenza tra patriottismo e nazionalismo. Che non è una questione facile, e non sono sicuro che mi abbia convinto, ma almeno ci prova.
Il nazionalismo lo vede come un valore negativo: è quell’ideologia che ci spinge a dire che siamo meglio degli altri, che tutto ci è dovuto, che gli altri non si azzardino a dirci cosa fare. È l’approccio del bullo, tronfio e gonfio. Non faccio nomi ma secondo me stiamo pensando alle stesse figure politiche, via.
Ma non è tutto qui, c’è un’altra mossa, spiazzante. Il nazionalismo aggiunge: se non ci dai ragione non ami la tua patria. Cosa che mi ha sempre fatto incazzare: io amo il mio paese, ma i nostri difetti ce li dobbiamo dire, inutile nascondersi dietro un dito. In altri posti, fuori dai confini, fanno le cose diversamente, a volte meglio, e oh, va accettato. Eppure.
Mario Vargas Llosa scioglie il nodo a modo suo e propone questo: il nazionalismo è un’ideologia, l’amor di patria è, occhio, nostalgia. Quei posti – pochi, microscopici, un paese, un rione, una strada – a cui ripensi con amore, che se chiudi gli occhi sai immaginare senza sforzo, e che ti hanno dato l’imprinting, una forma mentis che tanto o poco poi ti porterai per tutta la vita. Quei posti sono la tua patria.
Non lo so se mi convince del tutto. Vorrebbe dire che “patria” è un pezzettino, minuscolo, della nazione in cui si è nati (tranne per gli abitanti di San Marino, fortunelli). E però lo capisco cosa intende: patria come senso di appartenenza, come radici. Non certo come costrutto-nazione, un’entità inesistente tanto sbandierata da gente che non è mai uscita dalla propria provincia di nascita.
L’effetto è diverso, il risultato è diverso. L’amor di patria che descrive Mario Vargas Llosa non porta a tensioni sociali, conflitti, violenza. Porta a sospirare guardando alla finestra, le lacrime agli occhi, mentre ascolti una famosa hit degli anni ottanta. E permette di risolvere il malinteso: quelli là, i nazionalisti, non sono patriottici. Sono solo stronzi.