Nella mia casa delle vacanze (che sì, la mia famiglia ha attraversato momenti di grandi ristrettezze economiche, ma in qualche modo in questa storia c’è una casa delle vacanze sull’appennino) non arriva il metano, il riscaldamento è a legna. C’è una grande stufa, di quelle che erano moderne negli anni ottanta, che scalda l’acqua dei termosifoni, così che quando è accesa la cucina si scalda immediatamente – la stufa è lì – e poi piano piano anche il resto della casa diventa vivibile. La stufa è di un bel rosso carminio e da bambino l’ho riempita di adesivi.
Sempre quando ero bambino fare fuoco era appannaggio di mio padre. Non me la sento di dare troppi dettagli, qui, in pubblico, però posso dire questo: mio padre è una persona complicata. Io ho avuto, come tanti e banalmente, un momento in cui ho rifiutato ogni cosa che mi faceva somigliare a lui. Quando mi scoprivo addosso un certo gesto, il taglio del profilo, un certo modo di sorridere che lo ricordava, inorridivo. Io non devo essere come lui. Non ci deve essere niente, in me, che lo ricordi. Roba da adolescenti, lo so, ci siamo passati tutti.
Per un bel po’ sono andato avanti per differenze: se lui fa bianco io devo fare nero, per forza, non scherziamo. E se proprio sono costretto a fare come lui, se proprio non ho un’altra strada da percorrere, allora è una gara. Devo dimostrare di essere migliore.
E però mio padre, con tutti i suoi difetti, non è un avversario facile. Certe cose le fa, e le fa bene, e io no. Ad esempio fare fuoco.
Fare fuoco nella casetta delle vacanze significa prima di tutto procurarsi la legna. Lui aveva i contatti, gli amici, i mezzi. Quando ho provato – molti anni fa, eh, ma io le robe me le lego al dito – quando ho provato a parlare con uno di questi e gli ho chiesto della legna e gli ho chiesto quanto gli dovevo, lui mi ha risposto di stare tranquillo, che si sarebbe messo poi a posto con mio padre. Avevo vent’anni, ma non importa: restavo il piccolino, il figlio di.
Procurata la legna in qualche modo – e io in questa casa ci vengo poco, va anche bene comprarne un paio di casse al brico, anche se la strapago, anche se quando mio padre è venuto a saperlo mi ha criticato – procurata la legna, bisogna fare fuoco. Hic sunt leones.
Mio padre ha sempre fatto grandi fuochi, riempiva la stufa fino al bordo, legni di ogni taglia, grandi e piccoli gettati un po’ alla rinfusa – ma era vero? Magari c’era un ordine suo che non conoscevo. Le fiamme molto presto scoppiettavano e la casa si scaldava, anche troppo: l’acqua calda nei termosifoni si espandeva e la valvola di sicurezza cominciava a gocciolare. Mia madre si lamentava che faceva troppo caldo, tra i monti e nel cuore dell’inverno.
Mettiamo invece che io salgo nella casetta, poco più che ventenne. Ci salgo con la morosa di turno, due cuori e una capanna. E devo fare fuoco. Al solo pensiero mi prende l’ansia, sento un morso alla bocca dello stomaco quando siamo ancora in macchina, quando arriviamo e apro la portiera e il mio fiato fa una nuvoletta. “Freschino, eh?” “Già.” “Ma adesso ci scaldiamo.”
Già.
I miei fuochi sono sempre stati striminziti, con la mia poca legna comprata al brico, appena sufficiente, rischiavo sempre che finisse. Aggiungevo qualche rametto raccolto nel bosco, umido e praticamente ignifugo. Qualche carta di giornale, ma non i quotidiani: le riviste, quelli che bruciano male, con una fiamma verde e malsana.
Il fuoco che non prende è frustrante. È una continua presa in giro, è un fallimento prolungato. Ti tocca rimetterci le mani, e ogni volta che apri lo sportello della stufa esce fumo e la cucina è invasa, la morosa di turno strizza gli occhi, esce a fare due passi, si innervosisce.
“Manca ancora tanto?”
“Ancora un momento.”
E mi innervosisco anch’io, chiaro. Mi viene il nervoso e faccio le cose in fretta, e male, e anche quelle poche cose che so del fuoco, quello che ho imparato, se ne va tutto via, non ragiono. Accatasto i legni in disordine – lui lo faceva e andava bene, lo faccio io e soffoco tutto. Le fiamme hanno bisogno di salire, di poter correre in alto, e io schiaccio tutto, faccio delle basse frittelle di combustibile. Anni di crescita, di conflitto, di sentirmi migliore e poi guarda qua: lui era capace e io no. Che fallimento.
Vorrei chiudere con una nota positiva. Dire che ho superato i miei demoni, che non provo più ansia a dover fare fuoco, che sono diventato più grande, più maturo. O anche solo poter dire che ho imparato: fanculo, guarda, sono diventato un survivalista, posso fare fuoco in una tempesta di neve, sucate tutti.
Invece l’unico, misero progresso che posso riportare è questo: ho dato un nome alle mie difficoltà. Anni di morose affumicate, nervosismo e frustrazioni mi hanno almeno permesso di catalogare i miei errori, accorgermi dei più comuni, prendere nota. Mi sono dato dei consigli, che sono anche un po’ dei mantra, e li ho segnati nel posto migliore che ho trovato, lì dove mi serve ricordarle.
Per l’immagine di copertina: “FIRE”by stbjr is licensed under CC BY-NC-ND 2.0