Questo libro è una dichiarazione d’amore e, come spesso succede per le dichiarazioni d’amore, è una menzogna.
Piccola premessa: ho incontrato qualche mese fa Cognetti e ci siamo stati subito antipatici. A lui ho fato una pessima prima impressione, ma succede, per carità, non gliene faccio una colpa. E lui mi è sembrato… boh, non voglio sbilanciarmi in apertura, quindi dico questo: mi è sembrato quello che poi trasudava nel romanzo, una pagina sì e una no. Questo per dire che non sono arrivato neutro alla lettura. Ma proseguiamo.
Le otto montagne è la dichiarazione d’amore di Cognetti verso la montagna, intesa prima di tutto come società agreste – borghi, alpeggi, montanari – e poi come esperienza naturistica – trekking, scalate, alpinismo. È un libro scritto bene, con l’accento proprio sulla qualità della scrittura, la prosa poetica fila e fa anche emozionare senza finire nel melenso, il racconto è immersivo e tutte cose. E quindi? Qual è il problema?
Grazie per la domanda.
Il problema è che leggendo mi si proiettava a nastro sul dentro del cranio questo quadro:
Fate caso ai pastorelli. Dei veri rurali, col capello perfetto e il vestito secondo la moda veneta di fine Quattrocento, ma dei veri rurali.
Mi spiego. (portate pazienza, mini spoiler) Il romanzo ruota attorno a due protagonisti, l’io narrante e il suo amico d’infanzia, entrambi con la montagna nel DNA. Poi l’io narrante parte, gira per il mondo, fa le sue cose, e l’amico montanaro resta montanaro, ostinatamente legato al luogo d’origine, contro tutto e contro tutti.
E Cognetti lo ammira. Ad ogni pagina ci dice che la purezza del montanaro indomito è da preferire cento volte all’esistenza avvelenata di chi va in città, abbandona le proprie radici, cambia. Spesso anzi il montanaro è fonte di una saggezza antica, risalente a tempi perduti, da tenere in gran conto.
E anche quando fa cazzate – quando si ostina a non ammodernarsi e, chessò, preferisce mungere le mucche a mano invece di prendere una cazzo di macchina – comunque Cognetti è lì che aleggia bonario e ci dice che sì, è una cazzata, ma gli vogliamo bene, è il nostro montanaro preferito, va bene così.
Va bene così un cazzo.
Dunque, prima di tutto io li conosco i montanari, direttamente. Conosco la versione appenninica, conosco la versione alpina, ho avuto qualche contatto persino con quelli di collina. E tutta sta saggezza non l’ho mai vista. È gente genuina, eh, burbera e però capace di dolcezza. Benissimo. Ma poi sono persone. Persone. Le persone non sono sagge, e quando attribuisci saggezza a qualcosa o qualcuno che – guarda un po’ – non c’è più, stai certo che è la tua memoria che ti sta fregando. Si stava meglio quando si stava peggio? No, è che i ricordi smussano.
Poi, l’ostinarsi. Ora, può benissimo darsi che all’interno della narrazione un personaggio faccia delle scelte, degli errori, e va bene così. MA! Io ho dei parenti vaccari. Davvero, cugini acquisiti a cui voglio un bene dell’anima. E con i vaccari marginalmente ci ho pure lavorato, a volte li incontro, scambio volentieri due parole. Tutti quanti, nessuno escluso, non ne possono più di mungere, giorno e notte, sole e tempesta, ore e ore della loro vita impegnate senza pausa. E quindi l’ho presa sul personale. Quando leggo che un tizio che ha le mucche non spende tutto il suo ingegno per fare meno fatica possibile e velocizzare al massimo le operazioni mi sale la ferocia, mi vengono le bolle.
Va bene, esagero. E poi sento già la critica col megafono: io, che mi leggo la peggio merda, storie fantasy e fantascientifiche, e scrivo anche di peggio, che le mie storie hanno sempre elementi surreali, proprio io sto a rompere il cazzo a Cognetti perché un vaccaro professa amore imperituro per le operazioni di mungitura manuale? Sì. Lo faccio. Stacce.
Il fatto è che Cognetti mi è parso un intellettuale di sinistra. Io sono un intellettuale di sinistra. DEVO essere ipercritico, sono le regole del gioco. In particolare nel romanzo ho trovato questo afflato da “il mondo è andato a rotoli, dobbiamo tornare alle cose genuine” che ogni tanto riappare anche nel discorso politico e che ogni volta mi fa sbroccare.
Altro esempio: il Nepal. Nel romanzo c’è tutta una parte sull’Himalaya e sulla saggezza orientale, altro cavallo di battaglia di un certo tipo di sinistra. Ogni volta che veniva fuori il discorso davanti a me si accendeva un cartello gigante con scritto TERZOMONDISMO, un cartello fatto di facce di bambini vestiti di stracci ma sorridenti, un cartello fatto di abitanti del posto che additano l’occidentale, un cartello fatti di PERCHÉ CRISTO COGNETTI SPENDE UNA PAGINA INTERA A DESCRIVERE IL CAMBIO DI SFUMATURA DI COLORE DEL MONTE ROSA E LIQUIDA KATHMANDU IN UNA RIGA?
Semplice: nel primo caso sa di cosa parla, nel secondo no. Questa è la mia impressione. Poi oh, magari è stato mille anni in Nepal e mi sbaglio e sono acido e criticone, ma a me è sembrato così.
Questo romanzo ha vinto il Premio Strega.
Paolo Cognetti
Le otto montagne
Editori Einaudi