Lettere da Malu Malu #14: un esercizio di spietatezza

GIORNO 19

Luminosissimo Maestro,

se questa missione non fosse tormentata da accidenti e contrattempi ora, a due giorni dalla mia ultima lettera, vi potrei finalmente scrivere che è iniziata l’esplorazione dell’isola, giacché la via ferrata è piazzata e le liane velenose sono ormai distrutte. Ma avrete già intuito che la nostra vicenda ha preso una piega differente. In breve, la Timorazza è stata attaccata. È avvenuto la notte dell’altro ieri, ovvero quella stessa sera in cui vi ho scritto. Tutta la faccenda è iniziata, per quanto mi riguarda, con due forti mani che mi scuotevano.

Va detto che dopo il tentativo di furto, e dopo gli eventi nefasti di Curcumello, il mio sonno si è fatto leggero e nervoso. Non stupirà quindi che la mia reazione fu violenta, e prima di comprendere a pieno chi avevo davanti avevo già percosso il povero Palavietto con un legno che ora tengo sotto il cuscino, da usare proprio nell’evenienza di un assalto notturno. Il pover’uomo era venuto a chiamarmi, in preda a un sommo terrore, e il mio accoglierlo a bastonate l’aveva gettato ancora di più in un panico confuso, tanto che egli è caduto in terra, tenendosi il lato del capo dove l’avevo percosso, e gettando fuori parole confuse miste a bava.

Dal canto mio in verità non compresi nulla di quanto stesse accadendo, giacché mi trovavo assonnato e spaventato dall’assalto, e con una figura sconosciuta che si muoveva scomposta nella mia piccola tenda. Insomma, mi gettai fuori, ancora brandendo il legno, e avrei potuto benissimo dare l’allarme, o anche menare altri colpi a casaccio nel buio su quel corpo ignoto e produrre chissà quali nefasti risultati. Ma Palavietto in quel marasma ebbe la lucidità o la fortuna di pronunciare il mio nome, e con voce riconoscibile, e insomma compresi l’identità del mio assalitore e mi calmai a sufficienza.

Egli no. Il grande timore che lo assaliva andava ben oltre la minaccia dei miei colpi, ed il marinaio si trovava in uno stato confuso, il suo intelletto preso da una lotta interna su cui forse dovrò tornare a scrivere. Tutto questo avveniva alla luce della luna, e sotto quei raggi argentei aiutai Palavietto a uscire dalla mia tenda e alzarsi. Egli mormorava, e si muoveva a scatti, ma insomma in qualche modo mi fece capire che voleva che lo seguissi. Non pareva in grado di spiegare, e la luce lunare illuminava un filo di bava che usciva dalla sua bocca e correva lungo il mento, come capita a certi cani dalle guance molli. La luna mandò anche altri riflessi, sul suo volto: egli stava piangendo.

Non credo necessario descrivervi il mio stato emotivo, ma lasciatemi aggiungere un dettaglio: Palavietto riuscì a trasmettermi un forte senso d’urgenza. Mi lasciai trascinare, mezzo ignudo così come mi aveva trovato, perché anche nella penombra notturna il suo messaggio era chiaro: stava succedendo qualcosa di tragico. Decisi così di seguirlo, attardandomi solo un momento per prendere la mia bisaccia che l’intrusione nella mia tenda porto ora sempre con me e che contiene, oltre a queste lettere indirizzate a voi, anche la mia gorgiera e il mio parapneuma. È un dettaglio importante, e ve lo scrivo non senza ragione: entrai nella tenda, raccolsi a tentoni la bisaccia, e notai che da essa proveniva un ronzio sordo ma inconfondibile. Nelle vicinanze vi era attività spirituale. 

Palavietto, uggiolando e inciampando, mi portò non già verso le altre tende, ma direttamente sul bagnasciuga, e anzi si avviò nell’acqua e mi dovetti affrettare per fermarlo e insomma cercare di capire qualcosa in tutta la faccenda. Egli si sbracciava e indicava confusamente la Timorazza che galleggiava all’ancora, una sagoma nera su uno sfondo stellato. E poi indicava anche altro, ma la penombra notturna unita alla sua grande agitazione mi impedirono di capire la sorgente precisa dei suoi timori. Era però chiaro come indicasse l’isola, e tanto mi bastò. Un qualche tipo di minaccia si stava avvicinando alla nostra caravella e, quale che fosse, era necessario dare l’allarme.

Corsi quindi verso la zattera, issata in secca a forza di braccia, e nel farlo gridai a pieni polmoni, giacché non volevo agire come un ladro e sottrarre ai miei compari la loro unica imbarcazione senza render conto. C’era un marinaio che doveva essere di guardia ma che russava sonoramente, e quando i primi sonnolentissimi volti iniziarono a spuntare dalle tende io stavo già lavorando di pertica per allontanare la zattera dalla costa. Palavietto, che nella confusione avevo perduto, mi raggiunse a nuoto, si issò, e iniziò a remare come un forsennato.

Il tragitto mi parve lunghissimo e la sagoma della Timorazza, che pure vedevo ingrandirsi, sembrava comunque sempre troppo distante, una macchia nera e senza forma preda di chissà quali indefinite minacce che prendevano mano a mano forma nella mia mente, non ultima un’altra esplosione di polvere da sparo che avrebbe avuto questa volta ben più pesanti conseguenze. Il mio compare di traversata tremava, e batteva l’acqua con foga, e spesso si lasciava andare a motteggi incomprensibili che non ho modo di riportarvi per iscritto. Attorno a noi solo lo sciabordio delle onde e il ronzare quieto del parapneuma.

Giunti a forse trenta braccia dalla caravella fu chiaro che qualcosa stava succedendo e che purtroppo eravamo arrivati tardi. Sentii un grido, poi il ponte della Timorazza si popolò delle luci di molte lanterne e l’aria fu attraversata dallo schiocco cattivo degli archibugi, seguito dal tonfo inconfondibile di una caduta in mare. Poi il vento cambiò e ci portò voci concitate: non v’erano più dubbi, il ponte della nave era un campo di battaglia. Palavietto era al colmo del parossismo e si agitava così tanto da mettere a repentaglio la tenuta precaria della nostra zattera. Gli strappai il remo dalle mani ed egli si rannicchiò al centro dell’imbarcazione, ripetendo un torrente di parole incomprensibili frammezzate a qualcosa che afferrai, un riferimento a un conteggio, o conto, ovvero una somma che doveva in qualche modo tornare.

Ma capite anche voi, non potevo permettermi altri indugi, e diedi fondo alle mie energie finché finalmente il legno della zattera non colpì quello della caravella. Per fortuna in questi giorni di continue staffette verso la terraferma il Capitano Tirso ha dato ordine di lasciar penzolare una scala di corda. L’afferrai e iniziai l’ascesa. Diedi solo uno sguardo dietro di me a Palavietto, che ancora giaceva sul legno, rannicchiato come un gatto spaventato. Ora posso dirvi che avrei forse dovuto agire diversamente, e cercare di assicurarmi la sua incolumità, ma cosa avrei potuto fare? Issarlo a braccia? Era chiaro come egli fosse incapace di seguirmi, e d’altra parte mi dominava l’imperativo di salire a bordo. Insomma, mi arrampicai, e mezza strada mi voltai e vidi Palavietto, fatalmente, per l’ultima volta. Il parapneuma ora aveva aumentato di volume e tanto più mi spingeva a risalire. Proseguii.

Giunsi finalmente al parapetto e mi ritrovai in mezzo a una rissa: il ponte era invaso dai nativi, uomini e donne ignudi o quasi, dalla medesima pelle scura che avevo visto quando si libravano nell’aria. Gli intrusi attaccavano a mani nude e senza precisione, c’era chi se la prendeva con gli oggetti, chi addirittura cercava di rosicchiare le gomene. Al centro del ponte quattro marinai stavano difendendo a spada sguainata una piccola fortificazione di botti che proteggeva il piede dell’albero di maestra, dentro la quale altrettanti uomini stavano ricaricando gli archibugi che avevo sentito sparare. La scena era illuminata da molte lanterne tenute da marinai arrampicati sul sartiame, o in luoghi difficilmente accessibili. Su tutto l’odore della polvere nera copriva il salmastro.

Mio malgrado mi trovai a dover combattere per la vita: appena scavalcai il parapetto due nativi mi si avvicinarono, le loro intenzioni ostili dipinte sui volti primitivi. Si muovevano con l’elasticità ferina dei barbari, ed essendo io stesso disarmato sapevo di non avere possibilità di competere in uno scontro fisico. Scartai quindi di lato, gettandomi a terra e rovinando su un secchio pieno d’acqua. Sentii quasi subito un dolore al polpaccio, e d’istinto scalciai: uno dei due nativi si era gettato sulla mia gamba e mi stava mordendo. Ora quasi ne rido, ma ho tuttora i segni dei denti, due file di ammaccature violette che mi marchiano la pelle. Comunque in qualche modo riuscii a scrollarmi di dosso quella prima minaccia e iniziai a menare fendenti con il secchio, gridando a pieni polmoni per mostrare loro che non ero certo una preda facile. La mia tattica parve sortire un qualche effetto perché vidi l’esitazione balenare nei loro occhi. Io non persi tempo ad approfittarne e mi gettai verso l’albero maestro, che era sì il centro della battaglia, ma pareva anche il luogo meglio difeso e organizzato di tutto il ponte.

Mi trovai in una zuffa, ma almeno non ero più solo. Come vi ho scritto vi erano quattro marinai armati di spada che difendevano il centro del ponte e contenevano il feroce assalto dei nativi. Rintanati dietro alle botti, altri quattro marinai stavano ricaricando degli archibugi con movenze frenetiche. La superiorità tecnologica della ciurma compensava a malapena il poderoso svantaggio numerico: sul pavimento giacevano già una decina di corpi nemici, ma nella foga della lotta gli assalitori mi sembravano centinaia. Il parapneuma fischiava fortissimo.

Il mio arrivo fu bene accolto, in breve mi trovai con in mano un pugnale a combattere spalla a spalla con i difensori. Per la prima volta nella mia vita provai l’ebbrezza della battaglia, ma ogni afflato eroico venne presto spazzato via dalla crudezza dello scontro: il marinaio alla mia destra, tale Santimonio, si sbilanciò menando un poderoso fendente, che una nativa di corporatura minuta schivò con l’agilità di una scimmia, e già il contrattacco si stava rivelando fatale. Ella afferrò Santimonio per la camicia e strattonò, con il chiaro intento di trascinarlo in mezzo ai suoi compari. D’istinto mi protrassi in avanti e affondai il pugnale, che le penetrò la spalla, e la lama nella sua discesa grattò l’osso. Quel suono, quella vibrazione che si trasmesse dal ferro al mio polso e poi su su per il braccio fino al mio orecchio, quel suono durò un istante solo eppure tuttora lo posso sentire. Ella mi guardò con furia e si ritrasse, in preda al dolore, portandosi via il mio pugnale. Poi dalle mie spalle la voce nasale di Sgraso, il marinaio dall’occhio di pietra, intimò a tutti di abbassarsi: gli archibugieri avevano finito di caricare ed erano pronti per una nuova scarica. Mi chinai e subito arrivò il boato cattivo della polvere da sparo, accompagnato da quattro fiammate che illuminarono per un momento la notte e mostrarono un muro di facce e corpi, ammassati, contorti, frenetici. Mi sentii spacciato.

La battaglia imperversò, tra grida, piccole vittorie e grandi terrori. I nativi lottavano senza il minimo senso di autoconservazione, e più volte mi trovai a fronteggiare nemici mutilati e sanguinanti che con il loro ultimo respiro ancora cercavano di mordermi. I corpi si accumularono sui corpi, il pavimento si fece scivoloso di sangue, l’odore di zolfo coprì tutto. Resistemmo. L’unica ragione che so trovare per questo esito è che il nemico, soverchiante in numero, combatteva però in maniera disordinata, come farebbe un branco di gatti. Con la seppur minima organizzazione militare ci avrebbero sopraffatto con facilità, ma contro ogni previsione il piccolo forte al centro della nave resse l’attacco.

Subimmo una perdita. A tradirci fu la stanchezza unita alla speranza di una vittoria che si faceva di minuto in minuto meno assurda. Il marinaio Folgore finì con un affondo un nativo particolarmente muscoloso, ma nel farlo commise l’errore di avanzare tra le fila nemiche. Egli voleva forse rientrare subito al sicuro tra le botti, ma inciampò e in un istante decine di mani gli furono addosso. Fu subito chiaro che non avremmo potuto fare nulla: Folgore svanì tra quei corpi nudi.

E a quel punto si ritirarono. Gettarono grida di vittoria e poi quella massa sterminata di invasori si rovesciò fuori dalla nave con la stessa foga animalesca con cui fino a un istante prima aveva dato battaglia. In un momento la nave fu svuotata, e gli unici suoni furono lo sciabordio delle onde e il ronzare del parapneuma, che da forte e insistente si fece moderato, poi quieto, poi cessò del tutto. Avevamo vinto.

La ritirata del nemico fu accolta prima con incredulità, poi con sospetto, e infine, quando fu chiaro che nessun nativo sarebbe tornato a disturbare la nave per quella notte, finalmente la ciurma si abbandonò ad un festeggiamento estatico. Scoprii che il resto dei marinai erano nascosti, chi sottocoperta, chi tra i pertugi del cassero, e tutti avevano osservato lo svolgersi della battaglia. Quando uscirono dai loro rifugi fummo osannati come eroi, e io in particolar modo, giacché mi ero unito di mia volontà allo scontro, e anzi ero giunto in un momento di crisi, quando le sorti parevano particolarmente incerte. La fortificazione al centro del ponte me l’aveva già fatto intuire, ma in quel frangente ne ebbi conferma: l’attacco era atteso. Degli otto combattenti sul ponte solo due erano volontari, Sgraso dall’occhio di pietra e Mulasso detto dei Quattro Coltelli, mentre gli altri sei erano stati tirati a sorte, giacché il compito era pericolosissimo. Anche per questo le mie azioni parvero coraggiose, quasi temerarie, e certamente onorevoli. Non volli ricevere onori che non meritavo, in fondo mi ero trovato nella battaglia quasi per caso, ma non vi fu modo di convincere i rimanenti che io fossi meno che un eroe.

In quel marasma gioioso mi capitò di sollevare lo sguardo e scoprire che a pochi passi da me c’era maestro Filippo, che mi guardava con aria grave. Poi egli in silenzio mi fece un cenno col capo, come a indicare di seguirlo, e se ne scese sottocoperta. Non avevo nessuna voglia di confrontarmi con lui, e per temporeggiare andai a cercare Palavietto, che avevo lasciato sulla zattera. Scrutai il mare notturno con l’aiuto di una lanterna ma, ve l’ho accennato più su, già il mio cuore lo sapeva: del marinaio non v’era traccia. Non so dire se i nativi se lo fossero portato via o se egli, in preda a chissà quali turbamenti, si fosse gettato in mare. La zattera, senza comando, era ormai un legno alla deriva che lentamente si stava allontanando, e un marinaio si offrì per andare a recuperarla e legarla alla Timorazza. Per un po’ cercammo e chiamammo Palavietto, più per dovere che per effettiva speranza di trovarlo, ma giunse il momento di dover rinunciare alle ricerche e ascrivere il suo nome nell’elenco dei caduti. Lasciatemeli ricordare:

Manfreduccio: ucciso dai nativi appena giungemmo all’isola
Griso, Mugno e Falamberto: rapiti dai nativi nello stesso frangente
Curcumello: impiccato
Folgore: rapito dai nativi durante l’assalto notturno alla Timorazza
Palavietto: disperso

Sette uomini su un equipaggio di trenta, compresi io e maestro Filippo. È un bilancio grave, da spedizione bellica.

Giunse quindi il momento in cui non potei procrastinare oltre: presi una lanterna e scesi sottocoperta con l’intenzione far visita a maestro Filippo, ma prima di raggiungerlo un gemito attirò la mia attenzione. Il suono proveniva dalla mia cuccetta, che si incontra per prima scendendo dal ponte, e la cui porta era socchiusa. Entrai, e nella penombra mi trovai dinanzi ad uno spettacolo orrorifico: la sorgente dei gemiti era infatti Ragno che, legato a una sedia, aveva il corpo percorso da ematomi e bruciature. Egli recava tutti i segni di un grave pestaggio, il volto gonfio, gli occhi viola, il labbro spaccato. Ragno, ricorderete, assieme a Curcumello e Palavietto è uno dei tre esploratori che furono avvelenati dalle liane e ne subirono gli effetti nefasti. Egli sembrava solo parzialmente cosciente ed emise un altro gemito, mentre lungo filo di saliva e sangue iniziò a colargli in grembo. Sulla mia branda, lì accanto, era appoggiato il parapneuma di maestro Filippo. Lo strumento era silenzioso.

D’istinto mi chinai sul pover’uomo e iniziai a slegarlo, ma subito la voce di maestro Filippo alle mie spalle mi intimò di fermarmi. Egli si era avvicinato in gran silenzio e ora occupava il vano della porta.

“Fermo, Limonberto”, mi disse con voce fredda, “segui ragione, non compassione. Non sei una donna.”
“Quale ragione vi può essere, maestro? Non siamo barbari. Questo non è l’agire di chi pratica l’Arte.”

Egli si limitò a sbuffare verso di me in tono sardonico e mi fece ancora un cenno, che lasciassi perdere Ragno e lo seguissi nella sua cuccetta. Attesi un istante e poi, quando maestro Filippo non poteva più vedermi, finii di slegare le mani di Ragno, di modo che si potesse liberare da solo. Poi seguii il mago.

Maestro Filippo mi attendeva nella sua cuccetta, che se possibile era in uno stato di ancora maggiore soqquadro: le coperte della branda erano in terra e la branda stessa era smontata, le assi impilate in malo modo in una gran catasta assieme a vestiti, tratti di corda e ciarpame di varia natura. Sulla cima di questo gran marasma spiccavano dei fazzoletti stropicciati e macchiati di sangue. Il loro scopo mi era purtroppo chiaro: non erano stati usati tanto come garze e tamponi per aiutare dei feriti, ma come fasce arrotolate sulle mani di un picchiatore. Restai in piedi sulla soglia del piccolo vano, a braccia conserte. Il mio disagio, posso dire addirittura la mia ostilità, erano limpidi, ma maestro Filippo non vi badò.

“Parla, Limonberto. Dimmi quello che sai.”
“So che avete torturato un uomo libero e innocente.”

Fece un cenno con la mano per indicare che era poca cosa, faccenda di nessuna importanza. Decisi di proseguire.

“So che ne avete fatto mandare a morte un altro, senza che vi fosse motivo.”
“Ma c’era, motivo”, mi rispose sorridendo. “C’era. Non mi aspetto che questa gentaglia lo capisca, ma tu, Limonberto, tu dovresti arrivarci. In fondo bisogna essere molto intelligenti per fare il mestiere di spia.”

Quella parola mi trafisse. Maestro Filippo, vedendo la mia reazione e pensando di aver colto nel segno, incalzò col suo tono sarcastico: “Ho saputo fin dall’inizio che non eri stato mandato qui solo come mio assistente. Vado tenuto d’occhio, è chiaro, e mi aspetto che i tuoi ordini siano di riportare ogni mia mancanza, ogni mia malefatta. Quella serpe del tuo maestro trama da anni contro di me e attende sbavando l’occasione di mordermi.” Riporto queste parole, luminosissimo maestro, per dovere di cronista, e le riporto così come le ho sentite e come sono uscite dalla bocca di maestro Filippo, anche se scriverle mi costa dolore.

“Zecca insolente, sappi che non puoi nulla contro di me, e se non vuoi che ti schiacci tra le dita e che ti getti nel fuoco ti conviene fare come dico. Forza, confessa, dimmi quello che sai!”

Luminosissimo maestro, non so cosa pensare. Non lo sapevo in quel momento e non lo so ora. Forse Maestro Filippo è egli stesso preda di qualche malattia misteriosa, una qualche febbre cerebrale che non certo attanagliava il povero Curcumello. O forse egli sta conducendo una storia così misteriosa e così piena di segreti da risultarmi del tutto incomprensibile. Ce l’avevo davanti, nella penombra ondeggiante di quella cabina ormai tramutata in tana, gli occhi spalancati, i pugni strettissimi. Era una visione ferina. Ed è in tale tesissima congiuntura che iniziai a sentire il ronzio del parapneuma. Lo strumento era nella mia sacca ed emetteva un ronzio basso, che percepivo più con la pancia che con le orecchie. È una tonalità che conosco bene, purtroppo. Indica attività spirituale presente, vicina, e controllata. Non v’era dubbio, maestro Filippo stava Comandando. Egli non aveva gorgiera, e doveva quindi tenere l’uovo spirituale in una qualche posizione non ortodossa, addirittura forse stretto in uno dei suoi pugni che ora erano bianchi dalla gran pressione. Io ebbi solo un pensiero: mi trovavo in pericolo.

E davanti al pericolo le lezioni che con grande pazienza mi avete impartito si sono rivelate perfette e salvifiche. In quel momento non potevo più considerare maestro Filippo come un mio superiore a cui dovere obbedienza. Forse un domani egli potrà nuovamente guadagnarsi quello status, ma da quel momento sono stato costretto ad aggiornare l’opinione che ho di lui. Egli è diventato un nemico. E, come mi avete insegnato, i nemici si battono.

Il problema immediato era uscire intero da quella conversazione e, possibilmente, da quella cuccetta. Egli voleva qualcosa da me, si figurava che io fossi a conoscenza di chissà quale mistero. Al posto di sfidarlo e suscitare le sue ire preferii fingermi spaventato, e docile, e mostrare di temere oltremodo le sue minacce.

“Certo, certo, vi dirò tutto. Ma da dove devo cominciare?”

La mia risposta parve sorprenderlo, forse si aspettava che dessi maggiore battaglia e divenne sospettoso. È pur vero che un minuto prima l’avevo accusato di aver fatto impiccare Curcumello per nessun motivo valido. Dovetti rassicurarlo confessando che sì, ovviamente dovevo riferire su di lui, come su tutto quello che succedeva durante il viaggio. E molte cose che erano successe in effetti non le capivo. Ma lo rispettavo come mio superiore nell’Arte, e gli dovevo obbedienza, anche se poi i metodi da lui impiegati non mi piacevano. Epperò gli avrei riferito ciò che voleva, che mi domandasse pure.

Le mie parole parvero avere un qualche effetto positivo, egli si rilassò almeno un poco e, con una certa goffezza, pose le mani nelle tasche della camiciona senza allentare i pugni. Era palese che nascondesse qualcosa nei palmi, ma non dissi niente. Poco dopo il ronzare del parapneuma cessò.

Quella che seguì fu la prima vera conversazione che io abbia mai avuto con Maestro Filippo. È ignobile che si sia dovuti arrivare a tanto, dopo le settimane di traversata e quasi venti giorni di permanenza sull’isola, dopo i fatti di sangue e l’assalto appena avvenuto. Sarebbe stato tutto più semplice se ci fossimo parlati da subito, e con schiettezza. Ma tant’è. Compresi anche altro: maestro Filippo era stanco. C’era una grande tensione che lo rodeva, un misto di preoccupazione, paura, forse paranoia, e tutta la sua figura esprimeva questo: egli era un arco. Pronto a scattare, pronto a ferire, ma anche piegato innaturalmente. Forse maestro Filippo era giunto al limite, e aveva bisogno di parlare con qualcuno.

Badate, luminosissimo maestro: scoprire in lui l’umanità di un cuore tormentato non mi fece dimenticare la nostra posizione, le sue azioni, e ciò che un momento prima ho pensato di lui. Un cane maltrattato e bastonato dopo una vita di violenze si può trasformare in una bestia feroce. Lo posso capire. Ma se è un pericolo va ucciso. Questo pensavo, e questo penso ancora.

Parlammo. Egli volle prima di tutto sapere di Palavietto. Credo che avesse dedotto il mio avvicinamento al marinaio dal nostro arrivare alla Timorazza assieme, sulla zattera. O forse eravamo stati visti parlare, e qualcuno glielo deve aver riferito. O forse maestro Filippo possiede altri mezzi per informarsi a me inconoscibili. Non importa, ammisi senza remore di aver iniziato un piccolo contatto con il marinaio, ma che avevo cavato poca cosa. Stavo iniziando, è vero, a vincere la sua fiducia, tanto che fu proprio Palavietto ad avvisarmi della battaglia in corso, ma egli era come un animale selvatico e sapevo che avrei necessitato di tempo per penetrare le sue remore. Tempo che però ora mi era stato sottratto, dato che il marinaio era disperso.

Maestro Filippo era però convinto che io fossi comunque arrivato a qualche tipo di conclusione, e volle sapere come interpretavo gli eventi. Io gli dissi che era tutto molto speculativo, ma che era chiaro che il veleno delle liane avesse avuto una qualche influenza sulla mente di tre dei quattro esploratori. Il marinaio Giusmo pareva immune, ma forse per qualche accidente era stato esposto meno degli altri al veleno. 

“Che altro? Sei un apprendista mago, avrai notato qualcosa.”

Gli risposi che non credevo che c’entrassero gli spiriti, e che anzi avevo avuto con me il parapneuma durante la mia conversazione con Palavietto, e anche durante il processo di Curcumello, e sempre lo strumento aveva taciuto. In realtà non era del tutto vero, quando Palavietto mi era venuto a svegliare il parapneuma ronzava, ma preferii tacere su questo dettaglio per costringere maestro Filippo a sbilanciarsi e spiegarmi almeno in parte ciò che lui sapeva.

“Per forza il parapneuma taceva, sciocco. Non hai notato niente? Quando è avvenuto il primo attacco? Quando hanno ammazzato Manfreduccio?
“La prima notte dopo il nostro arrivo.”
“E i tre marinai avvelenati, quando venivano presi dall’influenza misteriosa? Quando Curcumello ha fatto saltare la scialuppa?”
Iniziai a comprendere cosa voleva farmi notare il maestro. “Nella notte! E l’attacco alla Timorazza è avvenuto stanotte!”
“Un’altra cosa. Dopo che hai dato fuoco al bosco, quando è arrivata la nuvola a spegnere l’incendio?”
Venni scosso da un brivido. “Dopo il tramonto. Appena il cielo si scurì, subito dopo il tramonto.”

Maestro Filippo si concesse un ghigno e si mise più comodo sulla sedia. Io stesso necessitai di sedermi, troppe idee popolavano la mia testa e la stanchezza della battaglia parve finalmente raggiungermi. Mi accoccolai in terra, la schiena appoggiata alla porta, dato che non c’era altro sedile in quell’angusto locale.

Faticai a digerire quell’idea. Era affascinante, e anche rassicurante, che ci fosse una chiave di lettura univoca, qualcosa che finalmente aiutasse a dare struttura in quel marasma di eventi disordinati. Ma troppe cose sembravano non tornare, e soprattutto troppi elementi erano in contrasto con quello che sapevo sugli spiriti.

“È colpa del tuo maestro, che ti ha tenuto nella bambagia, rintanato tra le cosce dell’accademia. Tu sai cosa facevo, prima di rincoglionirmi e venire a stare a corte?”
“Vi occupavate della Doma.”
“Bravo, hai fatto i compiti. Sai cosa significa, la Doma?”
“Doma è acquisire spiriti selvaggi e incamerare la loro essenza vitale. Gli spiriti vengono omologati, immessi nelle uova minerali, e sono pronti per venire addestrati.”
“Citi a memoria il Canone, dovevi essere proprio uno studente modello. Ma ascolti le parole che pronunci? Acquisire, incamerare, omologare, immettere. Fanno di tutto per nascondere la realtà, per non farvi sapere come vanno le cose, per tenervi nell’illusione che gli spiriti siano questo: creature piegate e intrappolate in comodi sassetti, tutto molto pulito, tutto molto efficiente. Poi uscite dalla culla e venite travolti.”

Sentivo che stava parlando con passione, e che quello che mi diceva non era soltanto una considerazione su come vanno le cose nell’Arte ma che doveva essere legato alla sua storia personale. Era un terreno pericoloso, e non volevo dare l’impressione di interessarmi troppo alle sue vicende private, quindi provai ad avanzare su un altro fronte.

“Cos’abbiamo davanti, maestro Filippo?”

Egli mi guardò con occhi stanchi. “Non sono pronto a dirti tutto, e tu non sei pronto ad ascoltare. Sai perché ho fatto impiccare Curcumello?” Scossi il capo in silenzio. “L’ho fatto perché volevo provocare una reazione dell’isola. Dovevo verificare che la mia teoria fosse giusta, che l’isola non potesse agire di giorno. E così l’ho fatto impiccare al tramonto, e sono stato a guardare per lunghe ore quel corpo che penzolava.”
“Ma è inammissibile!”, dissi.
“Ecco una lezione per te, apprendista: fuori dall’accademia l’Arte è un esercizio di spietatezza. L’ho fatto perché andava fatto.”

Le implicazioni morali di quanto mi stava rivelando erano gravissime, ma in quel momento avevo bisogno di scoprire la verità nella sua interezza, o almeno nella massima parte. Cercai di proseguire la conversazione restando nel solco dell’interesse accademico.

“Eppure sapete bene che non successe niente quel giorno.”
“Già.”
“Perché?”
“Credo che l’isola fosse stanca. L’abbiamo ferita, lei hai reagito con la pioggia, e ha comandato a Curcumello di sabotarci – nota che noi l’avevamo attaccata con il fuoco, e lei ha deciso di vendicarsi tramite il fuoco della polvere da sparo.”
“Maestro Filippo, quello che dite… mi è difficile accettarlo. Comprendo, o credo di comprendere, il vostro ragionamento. Ma l’isola è appunto questo: un’isola. Sassi e sabbia e pietre che spuntano dal mare. Non può avere una volontà, lo sapete bene.”

Per tutta risposta maestro Filippo cavò di tasca la mano destra ancora chiusa a pugno e l’aprì davanti ai miei occhi. Non fui sorpreso nel vedere un uovo spirituale nel suo palmo, una pietra grigia e brillante, probabilmente ematite. “Solo pietre”, mi disse, “senza nessuna volontà”.

La conversazione proseguì ancora, ma non voglio tediarvi con inutili dettagli. La teoria di maestro Filippo è che l’isola abbia una sua intelligenza, che risponda con ostilità al nostro tentativo di invasione, e che al centro di essa risieda un potente spirito in grado di influenzare non solo la fisicità dell’isola ma addirittura di comandare gli uomini, in un’eretica inversione dell’ordine naturale delle cose. Mi risulta difficile anche solo intrattenere l’idea, che viola tutti i principi dell’Arte per come li ho studiati e contrasta con molte lezioni che voi stesso, luminosissimo maestro, mi avete trasmesso. Se quelle parole non fossero state pronunciate da un vostro pari le avrei accolte con sdegno. Eppure, eccomi qui a riportarvele.

C’è dell’altro, ma non so cosa. Maestro Filippo ha fatto intendere, o forse ho inteso io senza che lui volesse, di conoscere altri dettagli sulla natura ultima di questo ipotetico spirito. Ho notato che quando parla di esso usa sempre il femminile, e non solo per concordanza con la parola isola. Egli ritiene lo spirito intrinsecamente femmina, e anche questo è erroneo, giacché gli spiriti non hanno e non necessitano sesso. Ma la sua convinzione è trasparente, e mi pareva giusto riportarvela.

Su tutto questo ho bisogno di tempo per schiarirmi le idee. Resto profondamente convinto che maestro Filippo con le sue azioni abbia perduto ogni status privilegiato. Egli ha confessato candidamente di aver usato la vita dei marinai per provare le sue teorie, e questo è inaccettabile. Riguardo alla veridicità di quanto sostiene, mi paiono enormità senza fondamento, ma è pur vero che ho assistito con questi miei occhi a fenomeni notevoli, inspiegabili restando nel solco del Canone e dell’Arte così come è spiegata in accademia. In ogni caso, ho deciso di non ritenermi più vincolato all’ubbidienza, e che se si presenterà occasione – o necessità – di neutralizzare maestro Filippo agirò senza indugi. Vi è una certa ironia in questa mia decisione: egli riteneva che io fossi una spia, una serpe pronta a pugnalarlo alla schiena. Era falso, ma con le sue azioni ha finito per trasformarmi esattamente in quello che lui temeva.

Devo riferirvi di altri due fatti e abusare ancora della vostra sterminata pazienza. Il primo è che l’uovo dei serpenti è stato rubato. Vi riferisco di questo evento, gravissimo, con leggerezza, e io stesso non me ne capacito. In patria, all’accademia, il furto di un uovo spirituale imporrebbe lo stato di massima allerta. Ma qui, con tutto quello che sta succedendo, quasi passa inosservato. Eppure è un fatto grave. Ricorderete forse che avevo riposto l’uovo nella mia cuccetta, nascosto dentro il serbatoio di una lampada a olio. Avevo agito così perché maestro Filippo non rispondeva alle mie richieste, essendo lui in uno dei suoi momenti di massima scorbuticità. Ebbene, egli disse che poi, quando era andato a controllare, l’uovo non c’era, e aveva pensato che l’avessi tenuto con me. Qualcuno della ciurma deve aver origliato la nostra conversazione mentre, dal corridoio e attraverso la porta chiusa della sua cuccetta, lo informavo sulla posizione dell’uovo. Non aggiungo altro, ma va da sé che anche su questo dovrò indagare.

Il secondo e ultimo evento su cui devo riferirvi riguarda Ragno. Egli è stato pestato, come avrete intuito, direttamente da maestro Filippo, ma con il benestare del capitano Tirso. Questa volta la provocazione ha funzionato, e maestro Filippo era così sicuro che ci sarebbe stata una reazione da parte dell’isola da fare allestire il piccolo fortino al centro del ponte. Di questo fatto non so che pensare, poiché i metodi sono disumani ed esecrabili ma il risultato è stato certo. Ragno è collegato all’isola, e l’isola ha reagito, ma senza venire in soccorso. Ha reagito attaccando, e sacrificando molte vite dei nativi, con il solo scopo apparente di rapire uno dei nostri. Sazia, l’isola si è poi quietata. Questo sostiene maestro Filippo, e questo vi riporto, pur non accettando le implicazioni teoriche di questa posizione. Forse alla vostra mente sagace questi eventi appariranno come lineari e intellegibili, ma a questo umile apprendista paiono avvolti in una nube di mistero. 

Ma non è questo il fatto a cui facevo riferimento. È successo che Ragno, durante la conversazione tra me e maestro Filippo, si sia ripreso. Egli si è liberato dalle corde restanti, giacché io avevo sciolto quelle dei suoi polsi e, barcollando, è salito in coperta, solo per trovare i suoi compagni che per metà ancora festeggiavano e per metà stavano sgombrando il ponte dai cadaveri dei nativi e dai segni di battaglia. Pare che egli sia voluto tornare a riva con il primo giro di zattera, e che fosse così malconcio che nessuno se la sia sentita di fermarlo. Quando l’ho saputo ho pensato che egli fosse destinato a sparire, un altro nome da aggiungere alla lista dei caduti e dei dispersi, ma sbagliavo. Egli è qui, sull’istmo, nella tenda accanto alla mia, a riposo. Come avrete intuito anch’io sono tornato sulla terra ferma, anche su chiara insistenza di maestro Filippo, che non ha fatto mistero di volermi affidare il compito di sorvegliare l’isola da vicino. Egli preferisce la sicurezza della sua cuccetta, sulla Timorazza.

Ed è così che giungo alla fine di questo lunghissimo aggiornamento. Più che mai sento la mancanza della vostra guida.

Come sempre, servo vostro.

L.

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