Lettere da Malu Malu #16: cercavano sangue

GIORNO 22

Luminosissimo maestro,

disastro. Un completo disastro. Questi ultimi giorni sono la prova che avete fatto male a mandarmi qui. Non sono stato all’altezza del compito, la vostra fiducia è stata mal riposta, sono stato inetto, inadeguato e pavido. Il mio unico pregio sarà venire ricordato come un cattivo esempio, il contrario di ciò a cui gli apprendisti dell’Arte devono aspirare. Fermezza, Lucidità, Orgoglio. Non ho seguito nessuno dei precetti, e le conseguenze dei miei atti scellerati sono attorno a me. Disastro.

Gli ammutinati hanno agito, e prima di quanto mi aspettassi. Vi scrissi la mia ultima lettera ieri, al lume della lampada, la sera dopo la spedizione che finalmente ci portò a esplorare la superficie di Malu Malu. Quella fu una giornata lunga, e mi ritirai nella mia tenda con il corpo dolorante per le fatiche. Ricordo che passai una notte agitata, e spesso tornavo col pensiero a ciò che avevamo scoperto dell’isola, le sue piante misteriose, e la cima del vulcano, che più di tutto mi attira. Se questa storia potesse proseguire – se le azioni scellerate degli uomini non avessero portato alle nefaste conseguenze che sto per raccontarvi – so che è lì che sarei dovuto andare. Se vi è un segreto da scoprire, esso giace sulla cima del monte, forse proprio nel cratere innaturale che ho osservato da lontano.

Ma tutto questo importa poco ormai. Gli ammutinati hanno agito, dicevo, e l’hanno fatto presto. Poco prima dell’alba, e con cautela, il buon Mercionnio è venuto a svegliarmi. Aveva un sorriso teso, come chi deve fingere allegria sopra un lutto. Non mi fu difficile immaginare l’oggetto delle sue preoccupazioni, tanto più che uno sguardo bastò a confermare i miei sospetti: l’archibugio era sparito dalla mia tenda.

Gli eventi si svolsero poi con gran rapidità e confusione, e se noterete errori nel mio racconto ascriveteli alle molte incapacità del vostro povero studente. Ancora, e mio malgrado, mi trovai coinvolto in un fatto di sangue.

Uscii dalla tenda nell’aria pungente dell’aurora, sotto un cielo rischiarato abbastanza da farmi intravedere la sagoma scura della nostra caravella, che placida beccheggiava all’ancora. Accanto ad essa due grumi di uomini galleggianti, ormai vicinissimi. L’accampamento sull’isola era pressoché deserto, e anzi fui stupito di come i marinai avessero potuto affrontare quei preparativi e prendere quelle iniziative senza svegliarmi. Sulla terra ferma oltre a me restavano Mercionnio e Giusmo. Il primo ha ormai il ruolo di mio assistente, e non me ne dispiaccio giacché egli ha dimostrato buon cuore, sebbene sospetti che mi sia stato affidato anche per tenermi d’occhio. L’unico altro marinaio in vista era Giusmo, che vidi camminare con il passo apatico che ha acquisito dopo l’avvelenamento con le liane, e che non riuscivo proprio a immaginare in un’azione di guerra.

Gli altri uomini erano tutti sospesi sull’acqua, aggrappati a due legni. Scoprii così dell’esistenza di una seconda zattera, che gli ammutinati avevano costruito in gran segreto nei giorni scorsi. Che fossero stati in grado di procurare il materiale e assemblare l’imbarcazione senza che io me ne accorgessi è emblematico della mia posizione: Franco dell’Orso mi aveva messo a parte delle loro generiche intenzioni, ma senza rivelarmi i dettagli né l’imminenza dell’azione. Posso solo concludere che egli mi concede sì fiducia, ma non completa.

Congelato dall’orrore di quello che stava accadendo davanti ai miei occhi, vidi i due gruppi di ammutinati, ormai ridotti a due macchie scure per la distanza e la poca luce, raggiungere la Timorazza e iniziare a scalarne il fianco come formiche. Anche da lontano e anche nella penombra riuscii a distinguere lo scintillare dell’acciaio: cercavano sangue.

Sconvolto, mi apprestai alla nuotata. Mercionnio si oppose e cercò di calmarmi, mi disse che le cose ora procedevano, che non c’era niente di cui preoccuparsi. Mi pare di capire che avessero pianificato di venire a prendermi in un secondo momento, a battaglia inoltrata o conclusa. Più tardi Franco dell’Orso mi rivelerà che volevano tenermi al sicuro, che non c’era bisogno di coinvolgermi in un’azione cruenta. Ma sospetto che non mi volessero a bordo. L’ho già scritto: non si fidano di me. Non del tutto. E non sapevano se avrei preso le loro difese, o se avrei unito le forze con maestro Filippo per respingerli. Non posso dirlo nemmeno io, in verità. Decisero quindi di tenermi all’oscuro, e di mettermi davanti al fatto compiuto affinché io non dovessi prendere una decisione.

Mercionnio riuscì a trattenermi per qualche momento, ma quando tuonò il primo colpo di archibugio vidi sul volto del marinaio una profonda paura. Egli cercava di rasserenarmi, di dirmi che non v’era motivo di preoccupazione, ma egli stesso non era sicuro delle proprie parole. Ruppi ogni indugio e mi gettai tra i flutti, vestito com’ero, e abbandonando sull’isola tutto il resto, le mie lettere passate, il parapneuma e la gorgiera. Tutto perduto, ormai. E ancora Mercionnio provava a trattenermi, egli mi si aggrappò a una gamba, e nella foga lo scalciai via. Vi prego di credermi se vi dico che pur nell’oppressione del momento mi sentii in colpa per quel gesto. Povero Mercionnio, abbandonato pure lui.

Nuotare in quell’acqua, pur calda a queste latitudini, ma resa comunque gelida dalla notte, fu stremante. Tanto più che avevo fretta di arrivare, immaginando che chissà quali violenze e fatti disumani stavano accadendo a bordo. Non sapevo, ahimé, che i fatti più cruenti avrebbero educatamente atteso il mio arrivo.

Dopo trenta, quaranta bracciate, iniziai a pensare che forse avevo fatto un errore, ma scacciai il pensiero e mi concentrai sul mio compito. Presto la fatica occupò tutta la mia mente, ingoiavo acqua salmastra e pensavo solo a gettare le braccia avanti, ancora una volta, e scalciare sempre più scompostamente. I polmoni mi bruciavano mentre il freddo mi impietriva le dita, le mani, i piedi, e infine iniziò a rubarmi il calore dal cuore. Dopo cento bracciate iniziai a vedere delle macchie scure davanti a me e dovetti interrompere l’avanzata. Guardai avanti, e poi indietro, e scoprii con orrore che ero giunto esattamente a metà del percorso: ormai troppo lontano da riva per desistere, e ancora lontanissimo dalla Timorazza. Provai a riprender fiato, mi lasciai cullare dalle onde per un momento, e il mio sgomento crebbe: non galleggiavo. Se nuotavo e scalciavo e usavo attivamente le mie energie potevo stare fermo, ma se smettevo di percuotere l’acqua andavo a fondo. Entrai nel panico e provai a gridare, ma già la mia testa finiva sotto il pelo dell’acqua. Che fine indegna mi si prospettava. Ricordo che dalla Timorazza partì un altro colpo di schioppo, ne vidi il bagliore illuminare il ponte, e poi più niente. Affondai.

Non so dire, qui, cosa successe. Ripresi conoscenza avvinghiato, quasi annodato, alla scala di corde che penzola sul fianco della caravella. Forse, instupidito dalla stanchezza, nuotai come chi si muove nel sonno. Forse per un caso fortuito le correnti mi sbatterono contro la Timorazza. Ho il ricordo vaghissimo di due mani forti che mi prendono per le ascelle, e il contatto con un seno prospero, ma non so se credere a me stesso. Perché i nativi avrebbero dovuto salvarmi? Forse la mia mente, privata dell’aria, si è sforzata di dare forma a qualche flutto fortuito che mi ha aiutato a raggiungere la meta. Non so rispondere. So solo che raggiunsi la caravella, e dopo aver scrollato la testa alcune volte per schiarirmi i pensieri, salii.

Il capitano Tirso gridava e sanguinava. Non riporto, per pudore, le molte e variegate bestemmie che lasciavano la sua bocca con generosità, tutte rivolte agli ammutinati, al re, e financo al cielo. Gridava, mentre penzolava dal sartiame, appeso per un piede e scomposto come una marionetta. L’azione dei rivoltosi aveva avuto successo, pur con alcune perdite. A sole tramontato verrà celebrato uno spiccio funerale per Tommasone, il più veloce nuotatore della truppa, morto per una palla di schioppo, e di Gualzio detto Romeo, caduto per una coltellata alle spalle. È stato ferito anche  il marinaio Santimonio, con cui avevo condiviso il furore della battaglia quando i nativi avevano attaccato la caravella. Egli ha subito un colpo brutale ad una mano, che è finita maciullata. La perderà.

Ma nel complesso, dal punto di vista militare, l’ammutinamento era stato un successo. Sospetto che in larga, larghissima parte i marinai fossero stufi dei continui soprusi da parte del capitano Tirso. E poi in questi casi è sufficiente l’inazione, e lasciare che le cose facciano il loro corso: nessuno dei marinai voleva davvero rischiare di prendere una pallottola o una bastonata per difendere il capitano. I pochi scontri, mi pare di capire, sono stati più di rappresentanza, per poter salvare la faccia se mai si finirà davanti a un tribunale, in patria. Alcuni marinai, ora lo notavo, erano sì ammanettati e legati, ma senza convinzione né da parte dei carcerieri, né da parte dei prigionieri. Sembrava una grande messinscena.

Come vi scrissi nella primissima lettera, mi aspettavo che un fatto del genere avvenisse prima o poi, e anzi mi stupivo che non fosse avvenuto durante la prima traversata. Io stesso sono testimone del modo brutale con cui il capitano trattava la sua ciurma, e non posso prenderne le difese, ora. Però quello che avvenne dopo, sotto i miei occhi, è imperdonabile.

Franco dell’Orso guadagnò il centro del ponte, e si guardò attorno compiaciuto. I marinai tacquero, con l’eccezione del capitano, che proseguiva a vomitare insulti e a dimenarsi. Da sotto coperta venne condotto Moliabre, il secondo. Anche egli era in ceppi, ed in lui vidi forse l’unico barlume di vera resistenza. Franco dell’Orso se ne accorse, e lo invitò a parlare, e Moliabre rispose con voce nasale che avevano commesso un grosso errore, che gli ammutinati avevano insultato non solo la marina, ma anche la corona, e che insomma  stavamo firmando la nostra stessa condanna. Anche il capitano tacque mentre Moliabre parlava, e Franco dell’Orso pareva ascoltare con grande attenzione le parole del secondo. Esaltato dall’importanza del momento, Moliabre si lanciò in un panegirico su come fosse impossibile la deposizione di un capitano, e fuori da ogni protocollo della marina regia, e che solo per gravi e conclamate infermità poteva esserci un avvicendamento alla catena di comando e comunque in quel caso spettava a lui, come secondo, prendere il comando della nave.

“Quindi ditemi, Moliabre” disse Franco dell’Orso con voce calma e profonda “voi ci guidereste? Mettereste il capitano ai ceppi, e riportereste la nave in patria? E ci difendereste, a processo, e giurereste su dio e sulla corona che Tirso ha passato la linea, è stato disumano e violento oltre ogni misura, tanto da spingerci a prendere provvedimenti?”

Moliabre, intravedendo un barlume di speranza, si avventò sull’occasione. La sua mente lavorava in maniera così trasparente che pareva di vedere, in controluce, i suoi pensieri agglutinarsi.

“Certamente!” rispose, “liberatemi e lasciate a me il comando, e riporteremo almeno un po’ d’ordine in questa faccenda. Sono il secondo, è naturale che prenda io in mano la situazione. E non preoccupatevi per i processi, quando verrà il momento io-”

Franco dell’Orso alzò una mano per fermarlo. “Benissimo”, disse, e poi fece cenno ad uno dei marinai che abbassasse un po’ il capitano, il quale aveva ricominciato la sua litania di bestemmie vedendosi doppiamente tradito, prima dalla ciurma e ora dal suo stesso secondo.

Quando il capitano fu calato abbastanza che le sue mani sfioravano il ponte Franco dell’Orso diede segno di fermare e si posizionò alle spalle del capitano, che intanto grattava il pavimento, si dimenava e sputava. Gli abbracciò le gambe e controllò la corda che gli legava un piede per verificarne la tenuta. Il nodo era stretto, pensai, e lo stesso peso del capitano l’aveva reso ancora più stretto, tanto che non si poteva più sciogliere con facilità. Franco dell’Orso si fece dare un coltello, e io pensai che voleva tagliare la corda e dare seguito al piano concordato con Moliabre. Ma poi, senza perdere compostezza nemmanco per un istante, lì e sotto gli occhi di tutti, Franco dell’Orso piantò il coltello nel ventre del capitano, e tra le grida di quest’ultimo e davanti a un Moliabre sgomento procedette ad aprirgli la pancia come si fa con un grosso pesce. Il capitano Tirso gridava, e gridava, e quelle grida ancora mi popolano le orecchie. Franco dell’Orso lo eviscerò con mosse decise e il sangue scappò a fiotti e inondò la stessa faccia del capitano, le sue budella rosa e grigie si sparsero sul ponte e il capitano ancora gridava, e non moriva. Franco dell’Orso gli lasciò le gambe e fece un passo indietro, soddisfatto. Alzò gli occhi, tornò a fronteggiare Moliabre, sorrise.

“Io Moliabre” disse Franco dell’Orso “giuro solennemente sulla corona e sul re che il capitano Tirso è stato coinvolto in un grave incidente”, declamò. Poi si chinò e strappò un lembo della casacca del capitano, lasciandolo a petto nudo. “Egli è caduto fuori bordo durante un assalto dei violenti nativi di Malu Malu” il capitano provò ad affrontare uno stivale di Franco dell’Orso, più per istinto animale che per un piano preciso. I suoi occhi erano velati dal trauma, perdeva ancora sangue a secchi, non mi capacitavo di come potesse essere ancora vivo. Tutti sul ponte erano sgomenti. Franco dell’Orso scalciò la mano del capitano e poi si chinò e gli indicò il centro del petto, tra le scapole, dove cresceva un ciuffo di pelo bianco e riccio. “Il suo corpo è stato recuperato ed è stato ufficiato un degno funerale. Poi, secondo procedura, ho rilevato il comando della Timorazza.” Franco dell’Orso sempre chinato, porse il coltello a Moliabre, tenendolo per la lama, senza smettere di indicare con l’altra mano il centro del petto del capitano. “Questo giuro, davanti a questa corte, davanti al re, e che iddio mi sia testimone.”

Moliabre fece un accenno di gesto, l’ombra di un movimento, l’idea abortita di fare qualcosa. Non riesco a immaginare cosa gli passasse per la mente in quel momento, ma qualunque fosse la conclusione non riuscì a darvi seguito. In volto si fece terreo, bianchissimo, e poi abbassò lo sguardo. Era sconfitto.

“Sarebbe meglio che vi ritiraste nella vostra cuccetta, signor Moliabre”, chiosò Franco dell’Orso. Moliabre, come instupidito, non oppose resistenza quando due marinai lo accompagnarono sottocoperta. A questo punto, inaspettatamente, Franco dell’Orso si rivolse a me.

“Mastro mago, Limonberto”, mi disse con la sua voce profonda. L’unico altro suono erano i lamenti gorgogliati del capitano Tirso e gli scricchiolii della Timorazza. Il resto della ciurma taceva. “Sono desolato che abbiate dovuto assistere a questa scena incresciosa. Avevo disposto che veniste portato qui dopo, a cose fatte, ma non posso certo biasimarvi per essere arrivato. Ora, però, ditemi: volete anche voi assumere il comando della nave?”

Cosa avrei dovuto rispondere, maestro? Egli sembrava sincero, o almeno sinceramente interessato alla mia risposta. Avrei dovuto mostrarmi sicuro, sfidarlo? Forse piantare io stesso il coltello nel cuore del capitano, non foss’altro che per concedere una morte meno strascinata a quella povera anima? Come applicare qui i precetti dell’Arte?

Franco dell’Orso mi guardava con occhi sinceri, le sue mani insanguinate, e mi sentii minuscolo. Mi sentii come al cospetto di un grande spirito, un ente disumano che ubbidisce a leggi differenti.

“No, Franco dell’Orso”, riuscii a dire, cercando di camuffare il tremito nella mia voce. “È il vostro ammutinamento, governatelo voi.”

Egli parve soddisfatto dalla mia risposta, mi fece un cenno col capo e poi diede ordine che tirassero certe puleggie. Il Capitano venne issato ancora, il sangue si staccava da quel corpo in grasse gocce amaranto che si schiantavano sul legno del ponte e le budella, appendici sbagliate, gli penzolavano oscene, quasi del tutto srotolate, molto più lunghe delle sue braccia. Eppure egli viveva: sconvolto, semisvenuto, sbiancato, ma vivo. Il sangue gli colava sulla faccia dallo squarcio osceno del ventre e dalla sua bocca vidi staccarsi un lungo arco di bava. La lingua era bianca di schiuma e si muoveva come quella di pesce che boccheggia, nel secchio del pescatore.

“A mare”, disse quieto Franco dell’Orso. Mi colpì l’estrema serenità con cui diede quell’ordine, come chi non riesce nemmeno a concepire che qualcuno possa opporsi alla sua volontà. E infatti la ciurma fu rapida a seguire le indicazioni. In un momento il capitano venne gettato fuoribordo senza cerimonie. Impattò la superficie dell’acqua con un plonfo grave, e affondò.

Come per un segnale segreto, la ciurma si diede ai festeggiamenti. Il nemico era sconfitto, e l’epoca dei soprusi era finita. Sia gloria al cielo.

Ecco quello che pensavano tutti, o che fingevano di pensare, ma in mezzo a quel marasma di piedi battuti e balli improvvisati io restavo cupo. Tutto stava precipitando, e tutto doveva ancora precipitare.

Franco dell’Orso si stava lavando le mani lorde di sangue in un secchio d’acqua di mare che qualcuno gli aveva portato. I marinai attorno a lui erano come tanti cani che scodinzolavano, chi gli dava delle pacche sulle spalle, chi lo baciava. La gioia aveva contagiato anche i prigionieri, che già stavano venendo liberati. La guerra era finita e tutti erano graziati. In quel marasma quasi nessuno sentì il primo grido, ma tutti sentimmo il secondo.

Fu un grido straziante, seguito da una lunga coda di lamentazioni: qualcuno stava soffrendo, ferito, sottocoperta. I festeggiamenti cessarono di colpo, e tutti guardarono prima Franco dell’Orso, poi me. Non c’era dubbio sulla sorgente di quella nuova minaccia, e su chi dovesse occuparsene.

“Avevamo rinchiuso Filippo nella sua cuccetta”, disse Franco dell’Orso senza scomporsi. “Credo che dobbiate occuparvene voi.” La cosa tragica, luminosissimo maestro, è che gli fui grato. A quel punto desideravo più di tutto abbandonare quel ponte lordo di sangue, e ancora mi illudevo di poter parlare con maestro Filippo e cercare assieme a lui una soluzione. Da sottocoperta venne un altro grido, seguito da un tonfo sordo. Scesi.

Mi ritrovai nello stretto e buio corridoio su cui si aprono le cuccette. La luce che filtrava dalle mie spalle mi lasciava solo intuire ciò che avevo davanti. Era stato creata una barricata di fasciame, barili e altri ostacoli, che occupava trasversalmente tutto lo spazio del corridoio e copriva la porta della cuccetta di maestro Filippo. Davanti a me, a terra e a poca distanza, il marinaio Boloacre, un braccio orrendamente ritorto. Egli alzò verso di me due occhi spiritati, il volto sudatissimo. Si teneva con il braccio buono quello ferito, e prima che lo coprisse feci in tempo a vedere il bianco dell’osso che spuntava tra i cenci insanguinati.

In quel momento uscì da una delle cuccette il marinaio Sgraso, dall’occhio di pietra, spingendo con una certa fatica una cassa di quelle che di norma giacciono inchiodate alle paratie. Egli senza badare a me gettò la cassa nella barricata e poi si diede da fare per raccogliere ciò che era caduto e dare solidità alla struttura. In quel momento dalla cuccetta di maestro Filippo provenne un grido animalesco, e la porta si frantumò come colpita da un colpo di cannone. Schegge di legno volarono in ogni direzione e dopo un istante dal buco che si era creato nel legno spuntò un braccio umano, senza dubbio quello di maestro Filippo che, alla cieca, tastava tutto attorno alla ricerca di qualcosa da afferrare.

Sgraso dall’occhio di pietra fece un balzo indietro e quasi mi crollò addosso. Vedendomi lì dovette comprendere che il suo compito volgeva al termine. Mi fece un cenno di gratitudine e poi iniziò a trascinare via Boloacre, avendo cura di non afferrarlo per il braccio ferito.

Mastro Filippo produsse un altro colpo tonante, tanto forte che lo sentii nel legno sotto i miei piedi. Ricordo che pensai che doveva avere un cannone. Pensai, luminosissimo maestro, che maestro Filippo avesse in qualche modo trafugato la bombarda presente a bordo e se la fosse portata nella cuccetta, prevedendo che gli sarebbe servita. Riuscite a immaginarlo? La mia mente si rifiutava di accettare la realtà delle cose, e ci volle un terzo colpo per farmi realizzare ciò che stavo affrontando. Questa volta non passò del tempo tra il boato e la comparsa del braccio, anzi vidi proprio che il pugno di maestro Filippo attraversò il legno della porta e si schiantò sulla barricata, centrando un pesante barile di zavorra, che andò in frantumi e sparse il suo contenuto di sabbia e sassi tutto attorno, come pioggia.

Inutile girarci attorno: maestro Filippo stava Comandando, e lo stava facendo a gran rischio della propria vita. Mi fu chiaro dall’immagine di quella mano che spuntava, disperata. Il suo pugno aveva sì dentro sé la forza sovrumana necessaria a quell’attacco violento, ma già la pelle si staccava a brani, già il bianco dell’osso faceva capolino sulle nocche tesissime, e già il sangue rotolava copioso dalle ferite. A questo eravamo giunti, alle conseguenze estreme dell’Arte, al sacrificare il proprio corpo pur di raggiungere l’obiettivo, lasciando campo libero ad uno spirito ignaro della fragilità umana. Ricordo ancora le vostre lezioni, luminosissimo Maestro, quando bene mi mettevate in guardia dalla promessa del potere: “Il prezzo è alto, e quasi mai valevole del risultato” mi diceste in un pomeriggio d’autunno. “Gli spiriti ti sedurranno con la promessa del potere, come uno stiletto ti promette un facile assassinio o un archibugio un’avanzata dirompente. Non credere, non cedere. Pondera.”

Immaginatemi quindi in quello stretto e buio corridoio, accompagnato dal lento rollio della Timorazza, mentre davanti a me maestro Filippo sradicava i pochi resti della porta, strappando il legno come erba secca e spazzando la barricata che gli ammutinati avevano accatastato. Egli uscì, ferino e sconvolto, e ci guardammo. Era gonfio di bile e cattiveria, le mascelle tese gli squadravano il volto oltremisura. Le braccia, maciullate, erano quasi spogliate della pelle, e il sangue gocciolava copioso sul legno del pavimento. Egli indossava la gorgiera di metallo che già conoscevo, e al centro della sua gola una pietra quarzina intercettava la poca luce che penetrava nel corridoio. Gli occhi…

Mi trovo incapace di descrivere quello che vidi, in quegli occhi. Erano iniettati di sangue, sì, come chi non trova il riposo da giorni. Ma c’era altro, ed altro di sbagliato. Ecco, vedendoli pensai questo: vi era un qualche errore nella sua fisionomia, gli occhi sembravano più sporgenti, e strabici, e avevano perduto una parte della loro umanità.

Maestro Filippo caricò, in un attimo mi fu addosso, e mi scagliò di lato come un fuscello. Non so dire se provai a difendermi o anche solo ad apostrofarlo. Bastò un colpo di quegli orrendi bracci sanguinanti e venni sbattuto contro il legno della paratia, il mio fiato mozzo, grosse macchie mi annebbiarono la vista. Avrebbe potuto uccidermi, e con facilità.

Crollai a terra e maestro Filippo mi superò con passi pesanti. Cosa potevo fare, luminosissimo Maestro? Eppure dovevo, ora che le cose stavano precipitando. Non potevo tollerare altri spargimenti di sangue, altra violenza. Scrollai la testa, cercando di riprendermi, e delle mani gentili mi aiutarono a rialzarmi. Era Sgraso dall’occhio di pietra, che doveva aveva spiato la scena dopo aver messo Boloacre in salvo in una delle cuccette laterali. Lo ringraziai, e poi feci per andare verso le scale e seguire maestro Filippo sul ponte di coperta. Il marinaio però mi fermò. Egli cercava di farmi ragionare, sosteneva che non fosse più compito mio occuparmi di maestro Filippo. Intuii l’interezza del piano di Franco dell’Orso, quindi. Incaricarmi di scendere era stato un tentativo di risolvere con la diplomazia la faccenda. Se fossi stato in grado di parlamentare con maestro Filippo tutto si sarebbe risolto senza ulteriore violenza. Capite anche voi, luminosissimo Maestro, l’ipocrisia di tale approccio. Non si cerca il dialogo con chi si è cercato di far prigioniero nella sua stessa cuccetta, quasi murandolo vivo. Quello di Franco dell’Orso era un tentativo di facciata, per lavarsi la coscienza e poter dire di averci provato. I miei sospetti si fecero angoscia quando, dal ponte, arrivò una gragnuola di colpi di archibugio: l’arrivo di maestro Filippo era atteso, e quei colpi che avevo sentito erano stati la sua esecuzione.

Immaginate il mio stato emotivo. Con le mie azioni ero stato un ingranaggio, per quanto inconsapevole, del macchinario che aveva portato alla morte di un maestro dell’Arte, per quanto degenerato e disumano. Prima di questa lugubre spedizione non avevo mai ucciso nulla di più grande di un topo, e anche liberare dai ratti una cantina mi costò pena per quelle povere bestiole. E ora, nel breve respiro di pochi giorni, avevo dovuto dare battaglia e causare morte, diretta e indiretta, conoscere il grattare della lama contro l’osso e far cadere un maestro. Era vero, quindi? Ero stato parte di un assassinio?

Eppure qualcosa non tornava. Vi era stata la scarica di colpi dal ponte, è vero, ma i rumori di battaglia non erano certo cessati. Mi aggrappai alla flebile speranza che gli ammutinati avessero deciso di sparare dei colpi in aria, per spaventare il nemico, e mi precipitai sopra coperta.

Fui travolto dal terrore. Un terrore puro, che mi attraversò come ghiaccio, sentii i brividi nelle spalle, nella punta delle dita, nei testicoli. Mi sentii come si sente cervo mentre il lupo lo sbrana, da vivo, ed esso non può far altro che giacere, quieto, attendere che finisca e sperare, forse, che il prossimo morso sia quello fatale.

Il terrore arrivò nell’istante preciso in cui posai gli occhi su maestro Filippo. Egli, di spalle, era quasi nudo, le sue vesti già danneggiate mentre si liberava dalla barricata e poi di nuovo ora, nella battaglia. Solo la gorgiera d’acciaio gli cingeva il collo e le spalle, e dalla mia posizione ne vedevo il retro, con i suoi lacci di cuoio, in verità ancora danneggiati dalla mia spedizione sull’isola, tanto che l’intera struttura giaceva asimmetrica sul corpo dell’uomo. Ai piedi di maestro Filippo giaceva il marinaio Lammuso, il volto orrendamente sfigurato, la mascella strappata via con violenza, il naso ridotto ad un grumo informe di sangue e carne. Lo sfortunato, a terra, in una mano stringeva uno stiletto e con l’altra ancora si aggrappava alla casacca di maestro Filippo, ormai ridotta a un cencio insanguinato, ma quella presa era una faccenda di nervi, come quando la cacciagione ancora si muove a scatti pur se già il dardo del cacciatore gli trafigge il cuore. Egli era spacciato.

Ma non era questo, non era la vista del povero Lammuso a congelarmi il sangue. Era maestro Filippo. Egli non era diverso – badate – da come l’avessi visto solo pochi istanti prima. Eppure ora mi pareva una visione ferale, la sua pelle nuda sotto la casacca strappata, i muscoli tesi all’estremo, le vene gonfie, i tendini sul punto di saltare, le braccia orrendamente scuoiate. E c’era anche altro, ora egli emanava come un odore, come un’aura, qualcosa di intangibile che mi faceva sentire piccolo, e in pericolo, e desideroso di scappare. Non ero il solo a subire quell’effetto, tutta la ciurma di ammutinati, tutti condividevano lo stesso sguardo terrorizzato, lo stesso viscerale spavento. Non mi stupisco che le palle di schioppo non avessero trovato il bersaglio. Anche Franco dell’Orso, finora sempre sicuro e imperturbabile, ora guardava maestro Filippo con gli occhi fuori dalla testa, congelato dalla paura.

Fu in quel momento, luminosissimo Maestro, che capii che qualcosa non tornava. Ero terrorizzato come e più degli altri, è vero, ma i lunghi anni del vostro insegnamento finalmente facevano sentire il loro peso, e per quanto io sia indegno di fregiarmi del titolo di vostro studente, la vostra saggezza è destinata a fare breccia e infilarsi come ghiaccio nelle fessure delle rocce più stolte, e spaccare, e con forza portare la luce della conoscenza laddove sia più necessaria. Lucidità. In quel momento, e solo per un istante, sentii di stare seguendo il primo precetto dell’Arte.

Maestro Filippo mi dava le spalle, e stava Comandando, giacché avevo ben visto la pietra quarzina incastonata nella gorgiera, ma non bastava. Tale spirito doveva essere la ragione della spropositata forza fisica, della tensione sovrumana che ora percorreva il corpo del maestro. Ma doveva esserci altro, perché uno spirito fisico, corporeo, forgiato con il chiaro intento di dare battaglia, tale spirito poteva certamente incutere spavento nel cuore dei nemici, ma non così tanto, non con un’intensità tale da congelare chiunque posasse gli occhi sul mago.

Lucidità.

Osservai le mani del mago, una orrendamente aperta, la pelle che penzolava come un guanto. L’altra ben chiusa, sebbene il mago non impugnasse niente, né bastone, né lama, né archibugio. Già avevo intuito durante il processo a Curcumello che maestro Filippo potesse ricorre ad una pratica tanto spericolata, e ora la Lucidità mi imponeva di arrivare ad una singola, ineluttabile conclusione. Rinchiuso in quel palmo disumano doveva esserci un uovo spirituale. Maestro Filippo doveva stare comandando uno spirito trattenendone l’uovo in mano, a rischio di perderlo. Già questo era gravissimo, una pratica che violava i protocolli più basilari dell’Arte. Ma non bastava. Lo spirito della pietra quarzina doveva ancora stare esecitando il suo influsso sul corpo del mago, perché ancora egli era pronto a dar battaglia, e forte, e teso. La conclusione poteva essere una sola: Maestro Filippo doveva stare Comandando assieme due spiriti diversi. Quello della gorgiera, contenuto nella pietra quarzina, e quello dell’altro uovo, stretto nel suo pugno, di cui intuivo la presenza.

Comandare assieme due spiriti è una dimostrazione di grande padronanza dell’Arte, ma deve essere anche una misura disperata, giacché non è chiaro come i due spiriti possano interagire se forzati a condividere uno stesso tsolo. Che maestro Filippo avesse esperienza passata con quelle due specifiche uova? O che la sua Arte fosse così superiore alla mia da permettergli di praticare tecniche a me ignote? Non posso aggiungere altro su questo argomento – interessante, di cui sarei felicissimo di poter studiare meglio le implicazioni teoriche. Non è, purtroppo, il tempo dell’accademia.

Quindi eccomi lì, alle spalle di maestro Filippo, a condividere lo stesso terrore che attanagliava gli ammutinati, con solo due minuscoli vantaggi dalla mia parte. Il primo era che egli non pareva consapevole della mia presenza, giacché io ero salito sul ponte in gran silenzio e certamente la sua attenzione era concentrata sui nemici davanti a sé e sugli spiriti dentro sé. Il secondo è che capivo, meglio degli altri, cosa stava succedendo.

I precetti dell’Arte ti salveranno, mi ripetevate sempre durante le nostre amate lezioni. Bene, eccomi qui a ripassare le vostre parole. Lucidità: analizza ciò che hai intorno, sforzati di comprendere le regole del gioco e mantieni una mente pulita, libera dalle emozioni che inquinano il ragionamento. Fermezza: una volta presa una decisione portala fino in fondo, non deviare il passo, soffoca i dubbi o i dubbi ti soffocheranno. Orgoglio: onora l’Arte, difendila da chi la infanga, e crediti in grado di affrontare ogni difficoltà. Sei un mago, Limonberto.

Chiusi gli occhi per un istante, per concentrarmi e cercare dentro me la forza di agire e, stupito, scoprii che la paura grandemente svaniva. Il terrore che maestro Filippo irradiava era legato alla vista, al posare lo sguardo su quell’essere ferino. Tanto più doveva allora essere schiacciante l’effetto per i marinai davanti a lui, costretti a incrociarne lo sguardo. Mi aggrappai a quella piccola speranza e, con gli occhi ancora chiusi, scattai in avanti. Mi costrinsi ad aprirli dopo due, tre passi, venendo ancora investito dal panico, ma a quel punto era troppo tardi per tirarmi indietro, a quel punto già maestro Filippo aveva intuito la mia presenza e già si voltava, a quel punto non potevo fare altro che continuare. Non so se questa sia vera Fermezza. Forse sì, forse Fermezza è anche costringersi a mettere in moto un processo inarrestabile, sapendo che poi si vorrà tornare indietro, davanti al nemico, ma che a quel punto non sarà più possibile. Certo che volevo tornare indietro, certo che volevo essere da ogni altra parte dell’universo mondo purché non lì, non sul ponte della Timorazza, non al cospetto di maestro Filippo mentre egli dava fondo alle sue riserve. Ma c’ero io, lì, e non altri, e lo scontro era ormai inevitabile. A terra quel che restava del povero Lammuso ancora stringeva con una mano un residuo della casacca di maestro Filippo, e nell’altra uno stiletto che non gli era stato poi così utile. Il povero marinaio mi aiutò due volte, perché nel voltarsi per affrontarmi maestro Filippo inciampò in quel corpo mentre io mi chinavo, prendevo la lama, lo assalivo. Cademmo a terra entrambi, lui furioso, schiumante, animalesco, ora ben motivato a uccidermi, e anzi finalmente liberato, come se egli avesse a lungo ponderato la questione e fosse giunto ad una conclusione soddisfacente. Mi avvolse con una delle sue braccia scarnificate, e già sentivo le ossa scricchiolare, ma ancora peggio con l’altra mano mi afferrò la testa, e le sue dita strinsero, e penetrarono, sentii le falangi contro il mio cranio come chiodi roventi, la vista mi si sdoppiò, la pressione nella mia testa crebbe e sono certo che sarei morto, lì, subito, la testa schiacciata come un uovo calpestato. Non ho dubbi.

Orgoglio. Mentre la vita mi abbandonava e il dolore si sommava al terrore che ora era tornato e anzi mi tramortiva con la sua violenza, così vicini quegli occhi, così schiacciante quella furia, tutto in me svanì, ogni pensiero, ogni ricordo, ogni desiderio. Restò solo, adamantina, una certezza. Orgoglio. Avrei sconfitto quell’avversario, ero un mago, non c’era niente fuori dalla mia portata. Mentre le dita di maestro Filippo cercavano e trovavano le ossa del mio cranio io cercai e trovai il mio obiettivo, lo stiletto si infilò sotto la gorgiera e ne tagliò i lacci. Bastò. Sapete benissimo che il contatto tra mago e uovo spirituale deve essere completo, ininterrotto, basta un istante di distacco per espellere lo spirito dal proprio tsolo, e anzì ancora ricordavo quanto fosse stato violento per me ricorrere a questa manovra disperata quando solo, sull’isola, persi il controllo dello spirito del crisoprasio. E in quell’occasione avevo scelto io di compiere il distacco, ero in qualche modo preparato all’evento. Ma ora maestro Filippo non aveva controllo su quanto stava succedendo, egli aveva subito a sorpresa questo attacco e ne venne travolto. Il suo corpo si irrigidì, le mascelle si strinsero fino a far stridere i denti, raccolse le mani al petto e si flesse sulla schiena come un arco, tanto che solo i talloni e la nuca toccavano il legno del ponte. Io scappai da quella presa e arretrai strisciando, non potevo togliere lo sguardo da quello spettacolo ma non ne sopportavo la vicinanza. Egli aveva mantenuto la presa sull’altro uovo, quello che gli permetteva di irradiare terrore e che ancora giaceva ben stretto nel palmo della sua mano, e che ora quello spasmo che percorreva il suo corpo aveva incastonato come una pietra preziosa in un gioiello. Non oso immaginare cosa stesse accadendo nel suo tsolo. O nella sua mente, a essere sinceri. Tutti eravamo storditi dallo spettacolo, le ondate di panico che si irradiavano da maestro Filippo erano di una tale intensità che i marinai sul ponte non potevano fare altro che rannicchiarsi e tremare e pisciarsi addosso, come bambini, mentre il maestro si contorceva e mandava suoni raccapriccianti e gettava sangue e catarro.

Fu in quel momento che arrivò l’albatross.

L’animale, enorme, lanciò un alto grido e ci sovrastò. Cavalcava le correnti senza sforzo e restava quasi immobile nell’aria sopra di noi, a non più di cinque braccia d’altezza, muovendo appena le remiganti di quelle lunghe ali. Nessuno si era accorto del suo arrivo, ma di questo perdonerete, luminosissimo maestro. Avevamo altro a cui pensare. 

L’albatros sembrava concentratissimo a osservare quanto stava avvenendo sul ponte della Timorazza, e maestro Filippo rubava la massima parte della sua attenzione. Terrore si aggiunse a terrore quando verificai il tremendo sospetto che si faceva largo nel mio stomaco: il marinaio Monzago accanto a me portava al collo un cannocchiale d’ottone, arraffato a mo’ di bottino, e io glielo strappai senza che questi opponesse resistenza – temo che il pover’uomo pensasse di essere finito all’altro mondo, ormai, e ogni vitalità l’aveva abbandonato.

Con mani tremanti mi portai lo strumento all’occhio e spiai l’isola, e fatalmente i miei sospetti divennero certezze. C’era movimento sull’isola, soprattutto nel cielo sopra di essa. Varie figure, indistinguibili per la distanza, già si alzavano in volo sul cratere. Potevano essere uccelli marini, è vero, altri albatros come quello che ora veleggiava sopra le nostre teste, ma il mio sospetto fatale andò ad altro. Il mio cuore seppe che erano nativi, della stessa strana varietà volante che avevo incontrato di prima persona, e dovevano essere una spedizione di guerra. Questo mi disse il mio cuore: stavamo per venire attaccati, ancora, e questa volta non avremmo saputo dare battaglia. Questa volta ci avrebbero sconfitti.

Ma dovevo fare qualcosa, almeno tentare di impedire il disastro. Tutti noi, sul ponte, eravamo ancora schiacciati da maestro Filippo, la paura ci investiva metallica e l’acido ci riempiva la bocca. Il mago ancora si contorceva, schiumando, teso come un arco, ampiamente dissanguato, sbattendo quelle braccia orrende che si trascinavano lembi di pelle molli come guanti troppo grandi. Potevo vedere le sue ossa, i suoi tendini. C’era sangue ovunque. 

Chiusi gli occhi. Lo feci per tamponare l’effetto odioso dello spirito che ancora maestro Filippo Comandava, o da cui forse ormai era ora posseduto. Ma in egual misura lo feci per non vedere ciò che mi apprestavo a compiere, perché mai mi sarei sognato di dover sancire con le mie mani il destino di un maestro dell’Arte. A tentoni trovai quel corpo, caldissimo, rabbrividendo quando la mia mano si posò su un lembo di pelle flaccida e viscida, quasi lo scampolo scartato da un sarto frettoloso. L’albatros sopra di me gettò ancora un fischio acuto, senza dubbio un segnale di guerra, che mi mise ancora più fretta. Dovevo agire, per dare alla ciurma una flebile possibilità di salvezza. Infilai le braccia sotto maestro Filippo e cercai di sollevarlo. Ovviamente fallii, persi la presa e scivolai su quello stesso sangue che generoso imbrattava il ponte. Riprovai, e spingendo e trascinando arrivai fino alla ringhiera. Le grida dell’albatros non smettevano, e anzi ora martellavano l’aria. A tentoni compresi dove mi trovavo, quanta poca strada avevo percorso e quanta fatica mi era costata. Diedi un ultimo sforzo, uno strattone, sollevai il corpo contro la ringhiera, sbuffai, spinsi ancora. Lo gettai fuori bordo.

Il pesante mantello di terrore che ci avvolgeva tutti venne sollevato di colpo, e mi permisi di aprire gli occhi e guadare giù. Maestro Filippo giaceva nell’acqua, ancora rigido, su un fianco, ma fu questione di un istante e poi venne inghiottito dai flutti. Subito spuntarono un braccio umano, un piede, arti dalla pelle brunita. I nativi erano pronti a reclamare il loro bottino.

Non c’era tempo da perdere: mentre i marinai si risvegliavano come da un sonno colmo d’incubi e timidamente provavano ad alzarsi, gli occhi sconvolti, i volti rigati dalle lacrime e ancora sbiancati per il terrore, iniziai a ordinare che si levasse l’ancora, che si spostasse la nave, che scappassimo. All’inizio le mie grida vennero accolte da sguardi vacui, quasi bovini, ma più che la ragione delle mie parole fu l’urgenza del mio tono a farsi strada in quelle menti obnubilate. Trovai Franco dell’Orso e lo scossi, urlandogli in faccia che dovevamo andarcene. La scena doveva avere anche un tono comico, io, lo studioso mingherlino, che scrollavo con vigore il lupo di mare che non più tardi di mezz’ora fa tanto mi incuteva soggezione. Ma le mie parole attecchirono, e gli uomini vennero messi in buon uso, felici di potersi aggrappare a delle istruzioni pratiche e concentrarsi sul concreto, sul tirare le corde, tendere le vele, muovere gli argani.

La Timorazza si mosse. Non so dire se i nativi desistettero per nostra abilità o per loro scarso desiderio. O forse non avevano nemmeno intenzione di assalirci. Non posso saperlo. So che ci allontanammo, dapprima con placida lentezza e poi con vigore, mano a mano che il vento ci spingeva generoso. L’albatros ci seguì per forse un miglio, prima di fare ritorno al suo nido.

Nessuno a bordo parlava. Solo Franco dell’Orso, quasi sottovoce, dava ordini alla ciurma, spesso cercando con lo sguardo la mia approvazione. Ma io non gli prestavo attenzione, ero inchiodato a poppa, gli occhi fissi all’orizzonte mentre guardavo il sasso colorato che si rimpiccioliva, sempre più lontano.

L.

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