Ho letto questo libro per una splendida convergenza: lo stesso giorno due persone diverse me ne hanno parlato, una in maniera entusiasta, una in maniera molto critica. Peraltro la persona critica (ciao F!) ne aveva una copia lì, tra le mani, quindi gliela ho gentilmente scippata.
Libretto agile, ancora più agile per il fatto che è frammentato in capitoletti quasi (enfasi: quasi) autoconclusivi, con una struttura che si capisce bene guardando l’indice:
BLU DI PRUSSIA – pag. 11
LA SINGOLARITÀ DI SCHWARZSCHILD – pag. 37
IL CUORE DEL CUORE – pag. 59
QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – pag. 85
EPILOGO (Il giardiniere notturno) – pag. 165
È un libro che parla anche di matematica, quindi guardiamo i numeri: il primo capitolo ha ventisei pagine, il secondo ventidue, il terzo ancora ventisei, il quarto ottanta.
I primi tre capitoli preparano il terreno. Ciascuno ci racconta una scoperta scientifica, e ce la racconta bene, facendola capire, anche quando il tema è difficile. Anzi, c’è una chiara progressione: il primo capitolo parla del blu di Prussia, di come il pigmento sia stato scoperto per caso durante ricerche chimiche di tutt’altra natura. Poi si parla del limite di Schwarzschild, che ha a che fare con i buchi neri e definisce fino a dove si estende il loro tremendo potere di risucchio. Infine nel Cuore del Cuore si parla di costrutti matematici astratti che starebbero alla base di tutta la matematica, un tema per cui al matematico Alexander Grothendieck, trivialmente, ha dato di volta il cervello.
Il percorso è chiaro: dal concreto all’astratto, dal tangibile all’ineffabile. Poi inizia il quarto capitolo, il più lungo, che è sostanzialmente una novella a parte e che si concentra sul paio di decenni meravigliosi a cavallo tra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso, anni in cui hanno fatto capolino la teoria della relatività di Einstein, il principio di indeterminatezza di Heisenberg e le equazioni di Schrödinger. Ovvero: il momento in cui abbiamo smesso di capire il mondo.
Si parla di scienza, e in particolare di fisica. Fino a poco prima, diciamo fino alla fine dell’Ottocento, la fisica seguiva un principio chiaro: ci stanno le cose, e noi le osserviamo. Le cose hanno le loro regolette interne, e con un numero sufficiente di appunti, osservazioni, esperimenti ed elucubrazioni noi potremo scoprire tutto. Tutti i dettagli. Sarà possibile rinchiudere l’ordine dell’universo in una bella tabellina, con numeretti e predizioni.
Poi arriva questa infornata di scienziati dai nomi teutonici e scopriamo che:
A) il tempo è relativo, se io sto fermo e tu ti muovi il mio orologio e il tuo orologio misureranno tempi diversi, perché per ciascuno di noi due in effetti il tempo scorre in maniera diversa.
B) il mondo non è infinitamente conoscibile. Ci son cose che proprio no, proprio non si possono sapere. È come se ti dicessi che di un edificio puoi conoscere o l’altezza o la data di costruzione. E più sei preciso su un’informazione più sei impreciso sull’altra. Vuoi sapere in che decennio è stato costruito? Potrebbe essere una casa di due o tre piani. Vuoi sapere l’anno preciso? Potrebbe essere una villetta monofamiliare o un condominio di dieci piani. Vuoi sapere il giorno preciso in cui è stato costruito? Potrebbe essere una casa delle bambole o il Burj Khalifa a Dubai. Ecco, stessa cosa, ma con le particelle.
C) la fisica quantistica funziona, e funziona benissimo. Nel tempo ha prodotto delle predizioni precisissime, proprio quelle robe che tu dici domani alla sedici e zero due piove e poi, guarda un po’, piove. E dico precisissime non inteso come “mio zio è un bravo falegname, precisissimo”, più inteso come “queste sono le più precise predizioni che l’uomo abbia mai fatto, che non possiamo andare più nel dettaglio perché ci mancano gli strumenti di misura per capire quanto sono davvero precise”. Quel livello di precisione. E però è un casino, e attraverso le formule la fisica quantistica ci racconta un mondo così alieno, così lontano dalla nostra esperienza quotidiana, che poi la gente sbrocca.
Questo è il tema centrale di Quando abbiamo smesso di capire il mondo, ovvero l’arrivo dell’incertezza nella fisica, una branca della scienza fino a quel momento dominata dalla solida fiducia nei poteri indagatori dell’intelletto. Vien fuori che la materia stessa da indagare è inconoscibile, e che comunque il nostro intelletto è impreparato. Stacce.
Nota importante: i romanzi romanzeranno. Labatut non ha scritto un saggio, ma ci ha voluto raccontare questi fatti mostrando in prima persona i protagonisti, i loro drammi, le loro idiosincrasie. Vista la quantità di gente che ha sbroccato il terreno per raccontare storie interessanti è molto fertile. Però, leggendo, ho avuto un dubbio. Le storie raccontate sono molto dettagliate, quello specifico giorno quello specifico personaggio ha fatto quella specifica cosa. E si è sentito di quello specifico umore. Benissimo. La prima volta che è successo ho pensato “vah, sto tizio deve aver lasciato un diario”. Poi succede una seconda volta, poi una decima. Insomma, in un’epoca pre-social tutti scrivevano diari dettagliatissimi?
No. È Labatut che inventa.
Lo dice poi in postfazione, che si è sentito libero di romanzare i fatti avvenuti. I capisaldi ci sono, gli eventi grandi e a loro modo storici sono tutti riportati con fedeltà. Quasi tutto il resto è farina del suo sacco, e nel suo sacco c’è un gusto notevole per il topos dello scienziato tormentato, sconvolto dai frutti delle sue stesse ricerche. Se questo rende il libro migliore o peggiore non so dirlo, dipende da te e da cosa cerchi in questo tipo di opera, e infatti si torna a chi mi ha consigliato il libro, in maniera entusiasta o critica.
UNA VOLTA TANTO non rompo il cazzo con la traduzione, che è di ottimo livello (brava Lisa Topi), e che addirittura fa un’opera di miglioria. Il titolo originale è “Un verdor terrible”, un verde terribile (verdor è una parola spagnola che indica il verde proprio delle piante, diverso dal generico “vierde” che indica il colore in termini astratti). Il titolo fa riferimento a una robina detta di passaggio, suggestiva e pittoresca, va bene, ma lontana dal cuore di questo libro. Peraltro la stessa robina suggestiva e pittoresca è ripresa nel risvolto di copertina, perché il pubblico va sedotto. Però, insomma, il titolo scelto per la versione italiana è decisamente più azzeccato.
Benjamín Labatut
Quando abbiamo smesso di capire il mondo
Edizioni Adelphi