Laura

[Questo racconto l’ho scritto in collaborazione con S. e l’ho mandato al concorso RILL 2019. Come da tradizione non ci siamo piazzati, per cui lo ripropongo qui]

“Posso entrare?”
È ieri notte, sto chiudendo, sono stanca, alzo gli occhi e c’è la fiera dello strambo: cappotto cammello, scarpe vacchetta, occhiali alla Colazione da Tiffany senza poterselo permettere. E poi i capelli, guardi, una roba indecente, biondo ghiaccio stile la-parrucchiera-mi-ha-decolorato-e-poi-è-scappata. Comunque. Questa tizia avrà trenta o quarant’anni e sta ferma, sta ferma e mi guarda. Non deve essere tanto normale, per forza, cosa chiedi se puoi entrare che io sto lavando il pavimento e le sedie son ribaltate sui tavoli, che devo fare, murare la porta? Farò così, prendo una betoniera e faccio una bella colata di cemento così almeno non mi arrivano i matti sulla porta del ristorante. Io dico:
“Guardi che siamo chiusi.”
E sa che fa questa? Annuisce. Ecco cosa fa. Guarda me e i tavoli e fa sì con la testa e mi chiede ancora:
“Posso entrare?”
“Se vuole entri pure, che mi aiuta coi pavimenti.”
Ma era una battuta! Cioè, adesso mi dica lei se non si capiva. Ma certo che si capiva, andiamo, fatto sta che questa mi sorride – e se lo lasci dire, non era un bel sorriso, che doveva aver avuto una malattia della pelle o qualcosa, le labbra secche secche e bianche bianche – questa mi sorride, mi passa davanti ed entra. Ma che modi, dico io, che modi! Io resto congelata come un aborigeno davanti a un elicottero, sto attaccata al manico dello spazzolone e questa mi entra nel ristorante. E stia attento, che peggiora. Entra e comincia a muoversi in giro, che c’era ancora bagnato e mi lascia le impronte, grazie tante, e intanto tocca tutto, i tavoli, i muri, il bancone del bar, con il suo cacchio di cappotto cammello che svolazza arioso, e le giuro che era così stramba, così fuori dal mondo che ci ho messo dei bei secondi per ripigliarmi e dire:
“Ma guardi che scherzavo! Siamo chiusi! Lei non può-”
E qua lei si gira di colpo come per dirmi una roba importante, solo che non dice niente e alza un dito. Ha la mano davvero bianca, ricordo che ci ho fatto caso, non mi pareva facesse così freddo, che è notte e tutto quanto ma è anche primavera e però deve esserci un bel vento per averla sbiancata così. Comunque. La stramba alza un dito con l’arroganza di un papa e seria seria se lo porta alle labbra come a dire:
“Ssssh.”
Solo che non lo dice davvero, ma il gesto è chiaro e si capisce e io non so, non mi è sembrato di continuare, non pareva il caso. Resto lì con lo spazzolone in mano, che sgocciola, e aspetto che parli, e alla buonora la stramba si decide e dice:
“Questo posto non è cambiato. Bravi.”
E poi mi fa un cenno piccolissimo con la testa, che però è stato piuttosto chiaro: potevo parlare di nuovo. Si rende conto, l’arroganza di certa gente? Deve ringraziare il mio bel carattere, che lo sanno tutti che sono buona e brava ma se mi cerchi mi trovi, eh. Però insomma non le sono saltata al collo come mi veniva d’istinto, anche se era tardi ed ero stanca sono rimasta calma calma, che non so, c’era come un grande silenzio nella notte e non volevo alzare la voce. E infatti ho posato lo scopettone e le ho detto:
“Grazie.”
A quel punto è arrivato Rufus tutto abbaioso. Rufus è un po’ la mascotte del ristorante ed è proprio bravo, fa sempre le feste, è tutto pelo e io lo tengo apposta in giro quando ci stanno i bambini che loro gli fanno le coccole e i papà lasciano le mance. È un trucco che ho imparato, che se gli fai giocare i bambini poi la gente ti ringrazia, fisso, perché gli hai distratto il mostro per un po’ e si son potuti rilassare. Insomma Rufus di solito è un tesoro ma ieri notte è arrivato e c’aveva da abbaiare. Ma cattivo, eh, una roba mai vista. Arriva dal cortiletto – che il ristorante prima era una villa e i clienti vengono su per la collina e parcheggiano davanti, dietro c’è il cortile con la legna e le nostre macchine, insomma le cose di servizio e anche la cuccia di Rufus. Rufus arriva sulla soglia della sala, testa bassa, orecchie schiacciate, coda immobile e ringhia. Ringhia e abbaia alla stramba, che non l’avevo mai visto fare così e mi sono un po’ spaventata, anche, che se ci penso ora magari lui voleva proteggermi. Ma che vuole io non mi son mai sentita in pericolo e infatti l’ho preso per la collottola e l’ho trascinato via e intanto ho addirittura detto alla stramba:
“Mi scusi, il cane è nervoso.”
Ma mica l’ho fatto per quella lì, il fatto è che se il cane mi morde qualcuno vado nei guai. Comunque la stramba non sembrava preoccupata, anzi non sembrava averlo neanche sentito il cane, continuava a girare tra i tavoli e guardarsi attorno stralunata e mi toccava tutto. Io ho portato via Rufus e l’ho legato e quando sono tornata l’ho trovata seduta su una delle sedie antiche che abbiamo, una di quelle di pelle che son davvero belle ed erano nella casa da prima del ristorante. Sono da esposizione, sa? Roba antica, c’è anche un cartellino con scritto di non sedersi, ma questa il cartellino l’ha buttato a terra e si è messa comoda a fare la regina. Cioè, aveva l’aria di una regina. Arrogante. Si è anche tolta il cappotto cammello e sotto è davvero vestita da stramba, tutta pizzi e nastrini, una roba che neanche le ballerine in televisione. Se ne sta seduta tutta soddisfatta su una delle mie sedie antiche, io la vedo e faccio per affrontarla e prenderla a calci come si meriterebbe, ma a questo punto lei fa di nuovo quella cosa del dito che lo solleva con grande calma e cortesia e non mi è parso giusto interromperla, che era chiaro che vuole dirmi qualcosa. Dice:
“Voglio vedere la padrona della locanda.”
Così ha detto, parola per parola. E me l’ha detto pure con un mezzo sorriso sulle labbra bianche – bianche come un marmo, glielo dico io, proprio esangui – e adesso che glielo racconto mi fa strano come ho reagito io stessa, che intanto non è una locanda da due soldi ma un signor ristorante, con le tovaglie di lino e una gran cantina e certi quadri alle pareti – li ho scelti io, sa? Tutti pittori locali, va bene, ma ho buon gusto, si può fidare, certi tramonti, certi paesaggi, tutti mi fanno i complimenti. Che poi, la proprietaria sono io, grazie tante, ma al posto di mandarla via a scopettate come era giusto e anche se mi sentivo un po’ presa per i fondelli sono stata invasa come da una grande calma – e non so davvero dove l’ho trovata. E infatti le ho detto con buona educazione:
“Sono io. Questa è la mia locanda.”
Non so perché ho detto così, locanda e non ristorante, ma sul momento sembrava giusto.
La stramba mi fissa. Ha sempre addosso quegli occhialoni grossi, che devi essere proprio matta per andare in giro di notte con gli occhiali e poi adesso eravamo al chiuso, c’erano le luci accese ma mica dei fari da stadio. Comunque si toglie gli occhiali e mi guarda e io sono rimasta come congelata, aveva gli occhi chiari chiari e piccoli piccoli. Cioè, c’era il pallino nero, come si dice, la pupilla, ma poi attorno non c’era quasi colore, era quasi tutto bianco. E lì ho capito che forse gli occhiali li teneva perché aveva un difetto alla vista, non so, anche a me è venuta la congiuntivite una volta e ho dovuto portare gli occhiali per fare tutto. Insomma questa mi piazza addosso i suoi occhi strambi e si corruccia e mi guarda fisso, mi studia come fanno i vecchi con le parole crociate e si vede che si sforza di capire qualcosa, comunque stiamo così in silenzio per non so quanto, io ferma, lei ferma, sempre con il dito alzato, sempre sul punto di parlare. Finalmente mi toglie gli occhi di dosso e si mette a guardare le travi del soffitto, e meno male che non ne potevo più, e adesso non sorride ma fa sì sì con la testa, che ha capito. Mi dice:
“Sei sua figlia.”
E poi, per fugare ogni dubbio:
“Portami Laura.”
Mia mamma si chiama Laura, mica è un mistero. Il ristorante era suo e adesso è mio, unica erede e compagnia cantante. E però la stramba mi dice così e io ho cominciato a pensare che questa non fosse una matta generica, che mi era entrata per caso. No, questa è una matta specifica, una che cerca proprio me e mia mamma e non c’è modo di liberarsene senza fatica e allora forse bisogna andare in fondo e capirci qualcosa. Comunque. Le faccio no con la testa e ricordo che mi sono preoccupata, che con i matti bisogna stare attenti e non contraddirli e poi mi spiaceva deluderla, ci tenevo a fare bella figura. Non so perché. C’è da dire che faceva una certa impressione, appollaiata sulla sedia antica, seduta in maestà. E però non potevo mica dirle di sì, che gliela portavo: mia mamma è vecchia e un po’ malandata. Stava al piano di sopra, che la villa è grande e ci viviamo assieme da tutta la vita, io e lei, cioè, lei prima di me, e io che qui ci sono nata. E a fare questo mestiere si conosce tanta gente, per carità, e anche gente matta, e magari questa aveva conosciuto mia madre quando gestiva tutto lei, è anche possibile. Certo, però se ci penso non torna, non tornano le età, che la stramba è più giovane di me e se era un’amica di famiglia me la ricordavo. Però tutto è possibile, ogni tanto dei clienti vengono e dicono che han cenato qui una sera d’inverno di quarant’anni fa e ci fanno i complimenti che tutto è rimasto uguale, e grazie tante, dico io, che mia mamma ha sempre voluto così, però insomma è un po’ strano. Ma tanto ormai me la faccio andar bene, che son proprio brava e io stessa mi stupisco e le dico con grande calma:
“Mi madre è di sopra, malata.”
Dovevo essere davvero arrabbiata e si vede che volevo chiudere la faccenda presto perché non ho neanche tirato la serranda del ristorante e insomma un momento dopo saliamo le scale. Lo so, lo so: ho portato una sconosciuta al capezzale di mia madre. Cos’avevo ieri in testa? Bella domanda, adesso se ci penso proprio non lo so, è successo tutto così: in quel momento sembrava la cosa giusta da fare, la stramba era stramba, sì, ma non sembrava pericolosa, e fatto sta che l’ho portata di sopra e ci troviamo davanti alla stanza di mia mamma. Conti che a questo punto è notte, ma notte fonda, che il ristorante chiude alle undici e stavo già a buon punto con le pulizie quando è arrivata e quindi apro piano la porta della stanza di mia mamma. La troviamo che dorme, per forza.
Mia mamma è uno scricciolo.
Deve sapere che mia mamma mi ha avuta tardi, che aveva già passato i quaranta, e adesso che ha passato gli ottanta è uno scricciolo. Cioè, non è mai stata un donnone, ma con la vecchiaia e con la malattia ha fatto come le prugne, si è rinsecchita, e però lei dice che ha buttato via il superfluo e ride sempre come può. Dico come può perché la malattia non la fa respirare bene, e più passa il tempo più peggiora. Insomma quando apriamo la porta lo spettacolo è quello che è, anzi, già che portavo una sconosciuta mi è successo che l’ho guardata come se fossi un’intrusa pure io, come qualcuno che passa e curiosa. La stanza era illuminata da un po’ di luce della luna, che le notti si son scaldate e a lei piace la luce, così le lascio le imposte un po’ aperte. Dorme sempre rannicchiata e il letto mi è sembrato enorme. Ha dei bei capelli, ancora lunghi, e sono neri neri perché non si rassegna e vuole sempre la tinta, che gliela faccio io, in casa. Spunta una mano dal lenzuolo ed è tutta una cartina di vene e ossa. Il tubino con l’ossigeno le arriva al naso e poi deve passare dietro le orecchie, ma si vede che dormendo si è mossa perché ce l’aveva tutto storto e questa cosa mi ha disturbato, mi sembrava indecente, faccio per andare ad aggiustarla ma mi fermo sulla soglia: non riesco a muovermi. Ma non come se mi tenessero, eh, mi fermo come fa un cane addestrato, che non gli hai dato il comando e lui non mangia anche se ha la pappa lì davanti ed è affamato e sbava.
La stramba era vicina a me e io l’ho visto benissimo anche nella penombra: il volto le si era come illuminato, aveva finalmente preso colore e guardava mia mamma con due occhi grandi come padelle e sembrava ingorda mentre annusava l’odore di disinfettante e di vecchio e le sue labbra han fatto come fanno le rose, che prima sono boccioli piccoli piccoli e poi sfioriscono. Volgari. È stata una cosa volgare, e anche oscena, e anche carnale. La stramba desiderava mia madre, era chiaro. Su questo mi deve credere.
Un istante dopo le è vicina. Succede così, in un battito di ciglia, la stramba era con me sulla soglia e poi era là, a lato del letto. Ci è arrivata senza rumore come si fa nei sogni, e io son rimasta sulla soglia, inchiodata ad aspettare il comando. La stramba la guarda ed è una cosa vergognosa: mia mamma è anziana, anche se ci scherza e non si rassegna ormai i suoi anni ce li ha, è coperta di rughe, respira raschiata con solo più mezzo polmone buono e nel silenzio più assoluto questa stramba che non ha la metà dei suoi anni la guarda come si guarda una bistecca. Io ho il voltastomaco, mi arrabbio, mi chiedo perché non mi sto muovendo, perché non le sto spaccando una sedia in testa, perché sto permettendo tutto questo, e mentre mi dico che devo fare qualcosa e raccolgo le forze e sento che mi sta venendo come un formicolio a una gamba e sento che sto per sbloccarmi, in quel preciso momento mia madre apre gli occhi. Apre gli occhi, vede la stramba vicino a lei, inspira col suo mezzo polmone e butta fuori:
“Siete venuta!”
Lo dice con gioia pura, con una felicità che non le ho mai sentito, senza il solito tono, senza la solita ironia, solo onestissima e purissima gioia.
“Dopo tutti questi anni.”
E vuole dire ancora qualcosa, si capisce, ma non ce la fa, è schiacciata dall’emozione. Chiude gli occhi e le escono le lacrime. Non avevo mai visto mia mamma piangere. Non l’avevo mai vista così felice.
Io sono come svuotata. Non capisco cosa sta succedendo, mi gira tutto, finalmente riesco a muovermi ma la mia rabbia è scappata via e ho le gambe molli. Mi avvicino e ascolto e non capisco il senso delle cose che si dicono e le cose che capisco non hanno senso. Mia madre le parla come si parla agli anziani. La stramba le parla come si parla ai bambini.
“Vi ho attesa per sessant’anni” dice mia madre “Quasi non ho vissuto.”
“Non devi arrabbiarti” dice la stramba “Sessant’anni sono brevi.”
“Sono diventata una vecchia” dice mia madre. Non l’aveva mai ammesso davanti a me.
“Sì” dice la stramba “succede.”
“Mi prenderete comunque?” dice mia madre.
“Sono qui per questo” dice la stramba.
“E guarirò? Tornerò giovane?” dice mia madre.
“No. Non del tutto. Il dolore che hai resterà con te” dice la stramba.
Cala il silenzio. La stramba guarda ancora mia madre con lo stesso desiderio negli occhi, ma ora che le sono vicina mi sembra di vederci anche altro. È la passione di un’amante. È trasporto, è brama, è corpo osceno e incomprensibile, però è anche altro, è esaltazione, è sacralità. Ecco. È un momento religioso, come un sacramento, come un matrimonio. Io mi sento come una scorreggia in chiesa.
“Mi hai servito e ho promesso di prenderti. Ma devi accettarlo” dice la stramba “Devi capire questo: non si può tornare indietro. Devi capire questo: è per sempre.”
“Ho paura” dice mia madre.
“È giusto” dice la stramba.
“Quasi non ho vissuto” ripete mia madre “per tutta la vita, nessun cambiamento, nessuna novità, sempre qui ad aspettarvi, facendo il minimo, con diligenza. Sessant’anni.”
“Il tempo di un respiro” dice la stramba. Poi, per la prima volta, la vedo esitare. Mi guarda e vorrei fare come le lumache, vorrei avere un guscio e scapparci dentro. Senza togliermi di dosso lo sguardo parla ancora a mia madre:
“Hai una figlia.”
“Sì.”
“Perché?”
“Ero sola.”
“Ti somiglia.”
“L’ho cresciuta con amore.”
“Il padre?”
“Non importa.”
“Vuoi che prenda lei al posto tuo?”
“No!”
Finalmente la stramba mi toglie gli occhi di dosso. Sorride, guarda mia madre, mia madre si tira a sedere, tossisce, si strappa il tubo dell’aria, le prende una mano nelle sue, quella della stramba bianca come marmo, quelle di mia madre tutte bitorzoli e macchie.
“No! È il mio premio, non portatemelo via! Prendete me!” dice mia madre. E tossisce, ogni respiro un sibilo. “Prendete me, prendete me, prendete me” ripete mia madre, all’infinito: “Prendete me.”
L’ultima cosa che vedo è questa: la stramba che sorride. Ma non una cosa a mezza bocca, no, questo è un sorriso grande e largo che le scopre i denti e adesso mi deve credere, non ha senso e lo so anche io, ma l’ho visto chiaramente: non erano denti normali, era una cosa da bestia.
Poi basta, non ricordo altro. Mi sono svegliata stamattina sul pavimento e mia mamma non c’era più. C’era un sacco di sangue in giro e non sapevo cosa fare e sono venuta subito qui. Ho paura. Ho bisogno di aiuto. Dovete aiutarmi. Dovete trovare mia madre. Riuscirete a trovarla, agente?

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