GIORNO 11
Luminosissimo maestro,
non era mio desiderio scrivervi con cadenza così elevata, giacché saggezza vorrebbe che io non seguissi ciecamente gli accidenti del momento, e anzi sarebbe meglio per me acquisire un certo distacco dagli eventi e poi produrvi un resoconto meditato e ripulito dalle passioni del momento. E c’è inoltre la questione piccola della mia convalescenza, che debbo seguire senza forzature inutili. Tutto questo mi è chiaro come un’alba di gennaio, eppure eccomi ancora nelle vesti di cronachista, spinto dall’eccezionalità dei fatti. Proverò, per quanto è nelle mie capacità, ad essere sintetico.
A quanto comprendo due giorni or sono i rocciatori hanno completato la ferratura della scogliera, grandemente aiutati da quella corda che, ricorderete, ero riuscito a posizionare al costo delle ferite che tuttora porto. Il lavoro ha dato frutto e ora l’alta faccia dell’isola è percorsa da una sottile ma ben solida griglia di catene, tale da rendere l’ascesa un compito semplice e alla portata di ogni uomo in salute.
Ebbene ieri mattina, nonostante le mie proteste, un gruppo di quattro marinai è risalito per la scogliera con il compito di compiere un primo passo verso l’esplorazione vera e propria. La loro consegna era di individuare una radura in prossimità dell’arrivo della ferrata o, in assenza di essa, provvedere a pulire un primo tratto di vegetazione. Ho inteso che capitano Tirso volesse stabilire lì, se possibile, un piccolo campo, e ho addirittura sentito parlare di spostare l’interezza delle nostre tende sulla cima dell’alto crinale. Come scoprirete continuando la lettura, tale intento appare ora irrealizzabile.
Posso provare a immaginare il vostro pensiero nel leggere queste mie parole: come ho potuto permettere che questi bravi uomini affrontassero l’impresa? In particolare dopo il mio primo incontro con i nativi, dopo che ho assistito con questi miei occhi al fatto straordinario di uomini e donne che si libravano nell’aria, immuni dal giogo che assoggetta tutti i gravi, come ho potuto insomma permettere che dei semplici marinai affrontassero un compito riservato con chiarezza di folgore a chi padroneggia l’Arte?
Avete ragione, e per quanto i miei umori non cambino i destini degli uomini posso garantirvi che ho passato la giornata di oggi tra somme angosce. Ad ogni ora immaginavo di udire le alte grida dei marinai, o il tonfo crudele della carne che precipita, o qualche altro rumore nefasto. Ma lasciate che vi rassicuri almeno su questo: sappiate quindi che i marinai sono rientrati, e vivi, anche se in cattive condizioni. Di questo successo non ho merito, e per capire lo svolgersi degli eventi sono costretto a una digressione.
Ieri vi è stata l’esplorazione. Ebbene, la sera prima, dopo aver finalmente concluso di trascrivere il mio primo contatto diretto con l’interno dell’isola, ho deciso che non vi era poi motivo di indugiare oltre e mi sono recato sulla nave a cercare maestro Filippo. Come ricorderete dopo la mia caduta dalla scogliera ho perso i sensi, solo per poi ritrovarmi medicato nella mia stessa tenda. Altri marinai mi hanno riferito che maestro Filippo ha verificato le mie condizioni di salute e recuperato gorgiera e uovo spirituale, per poi rinchiudersi in cabina. Da allora non ha più cercato contatti con me, e questo avveniva il quarto giorno di esplorazione, ormai una settimana fa.
Dovete inoltre sapere che per non so quale accidente cerebrale ho ritenuto più prudente di mantenere il segreto riguardo ciò che avevo visto sull’isola, non giudicando imminente l’inizio delle esplorazioni. Non mi è facile spiegare in maniera lucida il perché di questa mia scelta. Posso forse dire che a causa delle ferite e del forte trauma io stesso, in alcuni momenti, dubitavo di quanto avessi visto, e non volevo che si spargesse il panico tra i marinai. Anche, debbo confessare, non volevo venire additato come un cronista inaffidabile, preda di visioni mendaci, e prima di espormi con la ciurma anelavo un confronto con maestro Filippo, sebbene in egual misura temessi le sue reazioni. Quanto ho desiderato in quelle ore che al suo posto ci foste voi, luminosissimo maestro! Nella vostra saggezza avrei trovato in egual misura conforto e acume.
Eccomi quindi davanti alla porta della cuccetta di maestro Filippo. Era passato il tramonto e la Timorazza ondeggiava quieta nella notte marina. Dopo solo un istante di esitazione bussai alla porta, e la voce di maestro Filippo mi accolse gonfia del solito tono ostile. Le sue parole riuscirono comunque a sorprendermi, poiché egli disse “Muoviti ed entra, Limonberto”. Io avevo bussato ma, vedete, non mi ero annunciato. L’unica spiegazione che mi diedi fu che maestro Filippo immaginasse il mio desiderio di confrontarmi con lui, e dato che egli non riceve poi molte visite avesse immaginato l’identità del bussatore.
Perdonate, maestro, mi rendo conto che mi sto dilungando in dettagli forse inutili dopo avervi promesso sintesi. Proverò ad essere più breve nell’esporre l’incontro. Egli, sempre trattandomi con malcelato disprezzo, si informò sul motivo della mia visita. Io gli dissi che volevo parlare di ciò che avevo visto sull’isola, che vi erano dei dettagli che avevo tenuti segreti fino ad allora. Mi parve a quel punto di intravedere una scintilla di interesse nel suo sguardo, che in verità subito si affrettò a nascondere. Non pretendo di capire le motivazioni di chi mi è in così larga misura superiore, ma il fatto mi parve interessante e ve lo riporto.
Riferii quindi quanto vi ho già scritto: il mio comandare lo spirito del crisoprasio, il sentirne l’esaltazione nell’ascesa, l’arrivo in cima, la strana flora, l’albero dal piede panciuto, la curiosità che mi spinse ad arrampicarmi ancora, bucare il verde, guadagnare una prospettiva. Qui mi aspettavo un biasimo, una critica per una frivolezza poi pagata cara, ma durante il mio racconto maestro Filippo rimase impassibile. Seduto al piccolo tavolo ingombro di carte, mi mostrava il profilo grifagno e se non fosse stato per un periodico cenno del capo si sarebbe potuto dire perso in chissà quali lontani pensieri.
Venne il momento fatale, e non potendo indugiare oltre mi vidi costretto a parlargli dei nativi. “Uomini e donne volanti, leggeri come sottilissimo panno accarezzato da un vento docile”. Queste le mie parole. Ho quasi imbarazzo nello scrivervene ancora, e certo le pronunciai con cuore tremante. Ma maestro Filippo ancora si mostrò impassibile, e quando tacevo l’unica voce nella cabina era lo sciabordio calmo delle onde che accarezzavano il fianco della nostra caravella.
La sua impassibilità mi turbò, e anzi sentivo una grande rabbia montare. “Non vi è dono dell’Arte che possa produrre tale portento” dissi con grande foga, “i loro corpi dovrebbero essere distrutti, enfi di quegli stessi vapori che li rendono leggeri a tal punto da fluttuare, ma non era così, mantenevano anzi ogni parvenza umana. Com’è possibile? Come lo spiegate, maestro?” Mi resi conto di avere alzato la voce, e dall’imbarazzo mi azzittii. Maestro Filippo non parve segnare offesa, ma mi chiese con voce misurata se questo fosse tutto.
“No, non è tutto”, risposi. Fui preso dall’improvviso desiderio di non aggiungere altro, di tenere per me il resto dell’incontro. Non so dire, in tutta sincerità, da dove venisse questa mia spinta. Maestro Filippo è scorbutico, parco di parole e di insegnamenti, ma è pur sempre un maestro dell’Arte, e mio superiore, ed io sono qui con l’esatto compito di assisterlo. Per fortuna non diedi troppo peso ai sentimenti e proseguii nel racconto. Spiegai che i nativi rimasero ad una qualche distanza, e che solo quel grande uccello simile ad un gabbiano di gargantuesche proporzioni si avvicinò. Gli raccontai del grido selvatico che esso lanciò, e di come lo spirito del crisoprasio avesse risposto con violenza, aggredendo le pareti del mio tsolo.
Su questa parte del racconto l’attenzione di maestro Filippo crebbe, anche se ancora ebbi l’impressione che egli cercasse di mostrarsi impassibile. Ma il suo corpo tradiva fermento, e ora aveva fissato i suoi occhi sulle mie labbra, attento a non perdere alcuna sillaba. Mi fece delle domande sulla reazione dello spirito, e a mio avviso trovò nel mio racconto qualcosa di atteso o almeno di familiare. Passai quindi a parlare della mia caduta dall’albero e del rovinoso rientro giù per la parete, ma a quel punto fu chiaro come egli avesse perso interesse per la vicenda. Immagino abbia agito così perché aveva assistito con i suoi propri occhi alla mia discesa lungo la corda annodata e sapesse quindi dove il racconto terminasse, ma mantengo anche la convinzione che in fondo pensasse che non era più così importante ascoltarmi.
Io terminai di riferire e la cuccetta tornò in silenzio. Dopo qualche indugio nuovamente chiesi se potesse darmi delle spiegazioni, e quale fosse la sua opinione sui fatti riportati, ma egli si limitò a congedare le mie domande con un cenno della mano. Già immaginavo che il mio tempo presso maestro Filippo fosse terminato e che dovessi tornare in cuccetta – avevo infatti deciso di passare la notte sulla nave, per non affrontare la piccola fatica di remare nuovamente fino a riva – ma egli mi trattenne. Mi guardò anzi negli occhi per la prima volta in quella sera, e anzi mi sentii profondamente schiacciato dal suo improvviso riconoscere e quasi legittimare la mia presenza. “Di tutto questo”, mi disse con un tono calmo che non ammetteva repliche “non farai parola con la ciurma. Non sui nativi, non sullo spirito ribelle. Mantieni il segreto che bene hai fatto a istituire.” Detto questo mi congedò.
Nella notte fui visitato da molti pensieri, ma non voglio recare offesa alla vostra intelligenza con le supposizioni inconcludenti di un apprendista. Basti sapere che mi arrovellai molto, e provai a seguire il primo precetto dell’Arte, ma giunsi a poche, e magre, conclusioni. Che i nativi avessero un qualche rapporto con gli spiriti era fatto noto già prima della partenza, tanto che il nostro primo incontro con essi, per quanto luttuoso, non mi lasciò interdetto. In quell’occasione i nativi avevano dato sfoggio di grande capacità natanti, e di grande violenza. Nulla, insomma, che violasse le regole dell’Arte così come me le avete insegnate voi stesso.
I nativi che si libravano in aria sono del tutto inconcepibili, invece, e forse proprio in questa loro straordinarietà è celato il motore segreto dell’intera nostra impresa. Ve l’ho detto, maestro Filippo mi aveva dato l’impressione di essere poco o nulla turbato dal mio racconto. Mi era chiaro che sapesse qualcosa. Forse nei racconti Lumaccio e Perdigote vi è altro, forse non tutto ciò che hanno riportato nei loro annali è divenuto di dominio pubblico. O forse maestro Filippo ha accesso ad altre fonti, segrete, a me del tutto ignote. Comunque, quando venne a visitarmi la luce dell’alba ero giunto a questa conclusione: il mio superiore sapeva cosa stava succedendo. Per quanto egli facesse mostra di non tenermi in gran conto, io dovevo confidare in lui e nella sua saggezza. Decisi quindi di seguire la sua richiesta, e non parlare ai marinai di quanto avevo scoperto.
La mattina di ieri tornai a forza di remi all’accampamento sull’istmo, solo per trovarvi un gran fermento. Mi fu dato capire che la spedizione di cui vi accennavo fosse appena partita, ed in effetti levando lo sguardo potevo vedere quattro figure umane, ormai ridotte a poco più che macchie bianche dalla grande distanza, che con ritmo lento ma regolare risalivano il fianco della scogliera purpurea. Protestai, dissi di richiamarli, e per un istante mi parve che capitano Tirso prendesse in considerazione le mie parole. Ma poi Moliabre, il secondo, si volle informare con tono aspro se le mie proteste fossero dovute ad un qualche tipo di minaccia di cui fossi a conoscenza, o se solamente volessi assicurarmi il primato nell’esplorazione dell’isola. Messo alle strette e non potendo rivelare la vera causa del mio turbamento fui costretto a ripiegare. Credo si sia diffusa così l’idea, tra la ciurma, che io avessi marcato offesa perché non venni atteso per l’esplorazione.
La giornata passò poi come vi dissi, tra angosce e speranze. Cercai di occupare il tempo come meglio potevo, venni medicato, scrissi una lettera sotto dettatura del buon Mercionnio, e attesi notizie dagli esploratori. Un grande fermento attraversò l’accampamento quando i quattro segnalarono l’inizio della loro discesa.
Fu una faccenda lenta, e apparve subito chiaro che gli esploratori tornavano rallentati nei movimenti e provati nella salute. D’altronde se ritennero di poter affrontare la discesa – grandemente facilitata dalla catena, è vero, ma comunque impresa che richiede attenzione – potevamo dedurre che si sentivano in salute abbastanza, e forti abbastanza, per garantire la loro stessa sicurezza.
Era ormai calata la sera, e quando finalmente toccarono terra vi fu grande festa tra i marinai. I loro compagni erano tornati, e vivi, e l’isola stava ormai perdendo l’opprimente immagine di inaccessibilità con cui ci aveva accolto. Poi Curcumello, uno dei quattro, cadde a terra, bianco come un cencio e col respiro affannato.
Il racconto dell’esplorazione dipinse uno scenario assieme simile e diverso da quello che avevo incontrato nella mia spedizione. Essi riferirono della stessa natura selvaggia e straniera, ma dissero anche come tutta la foresta fosse legata da una liana giallastra, fortissima di fibra, così fitta da fermare il passaggio di un gatto, e così resistente che un uomo armato di roncola doveva faticare a lungo per riuscire a mozzarla. A riprova di quanto detto avevano portato alcune braccia di quella stessa liana, recise con gran pena, affinché tutti ne saggiassimo la resistenza. Mentre la ciurma con gran stupore esaminava il campione io sentii il peso si molti occhi posarsi su di me, fino a quando il silenzio fu più chiaro di molte parole. Tutti i presenti si chiedevano perché non li avessi avvisati di tale difficoltà. Parlai d’istinto, giudicando di non contravvenire al divieto di maestro Filippo, e negai. Come tutti loro, dissi, vedevo quelle fibre formidabili per la prima volta, che durante la mia esplorazione non erano presenti.
Le mie parole vennero accolte da qualche mormorio. Era chiaro a tutti, e a me per primo, che ciò che sostenevo aveva dell’incredibile. Non voglio dire che i marinai non prestarono fede a quanto dissi, e i quattro esploratori confermarono di aver visto la mia corda che si addentrava nel folto della boscaglia, ben oltre il limite delle poche spanne di terreno che loro erano riusciti a conquistare dopo un giorno di lavoro. Cadde il silenzio, mentre tutti sentimmo incombente la presenza dell’isola che, cupa, sedeva silenziosa dinanzi a noi.
In quel momento Mercionnio attirò l’attenzione su di sé. Egli pronunciò il mio nome, ma tutti lo sentirono e tutti si voltarono verso di lui. Mercionnio, come forse vi ho già detto, ha qualche nozione di scienza medica. Non sono certo conoscenze acquisite tramite l’accademia, ma egli è deposito di quell’insieme di abilità manuali e rimedi pratici che molto possono per chi è lontano dalla civiltà. Egli era subito accorso a soccorrere Curcumello, vittima di ciò che tutti avevamo considerato come un lieve malore da fiacchezza. Ma sul volto del buon Mercionnio vidi chiari i segni della preoccupazione. “Veleno”, disse, e in quella singola parola sintetizzò la tragedia.
Vi risparmio i dettagli delle ore convulse che seguirono, e subito ve ne rivelo la soluzione: scoprimmo che le liane, oltre alla formidabile resistenza, celavano un altro e più infido segreto. Erano infatti percorse da innumerevoli e minuscole spine, peli quasi invisibili all’occhio nudo e mai più lunghi della capocchia di uno spillo. I quattro esploratori avevano manipolato le fibre per tutto il giorno, e per tutto il giorno si erano in tal modo esposti a tale nefasta influenza.
Come avremmo poi potuto appurare, era un veleno di grande forza ma per fortuna non letale. Altri due degli altri esploratori, Ragno e Palavietto, crollarono in preda alla stessa spossatezza che aveva colpito Curcumello, e nel decorso del malanno i tre furono tutti vittima di una febbre molto alta, tanto da portarli brevemente al delirio. Il quarto esploratore, Giusmo, forse per buona fortuna o forse per sua naturale resistenza, mostrò sintomi molto più lievi.
Fu una notte agitata, che io decisi di passare al capezzale dei quattro, concedendomi un piccolo riposo solo alle luci dell’alba di stamane, quando le febbri hanno finalmente dato segno di scemare e il colorito è tornato sui volti degli avvelenati. Il pericolo pare scampato.
Sto scrivendo ora, che non è ancora arrivato mezzogiorno e dopo la notte che vi ho descritto. Perdonerete quindi se la mia prosa non è perfetta, e se concludo con qualche informazione affastellata. Sono certo che non sarà sfuggito al vostro grande acume che quelle stesse fibre velenose erano state riportate all’accampamento e maneggiate dai più – io stesso le avevo prese in mano per saggiarne la robustezza. Ebbene, nessuno di noi ha mostrato segni di malore, a parte l’occasionale arrossamento della pelle. Ad ora crediamo che solo attraverso un’esposizione prolungata ed estesa il veleno possa raggiungere il suo triste scopo.
Infine, i notabili della ciurma. Tirso e Moliabre hanno reagito secondo i loro ruoli e inclinazioni, il capitano imprecando volgarmente e maledicendo l’isola, il suo secondo facendo guardia costante agli avvelenati e non risparmiandomi l’occasionale commento salace. Maestro Filippo dal canto suo ha compiuto una breve visita all’accampamento, durante la quale mi è parso di leggere in lui una certa ritrosia a mescolarsi alla ciurma. Sentito il resoconto, ha prelevato una parte delle liane provenienti dall’isola ed è subito tornato sulla Timorazza.
E con questo concludo finalmente la mia lettera e mi appresto a riposare. So che a breve dovranno essere decisi i prossimi passi di esplorazione, e conto di scrivervi quando i nostri prossimi sforzi inizieranno a dare frutto, o qualche altro accidente notevole farà la sua comparsa.
Servo vostro,
L.
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