Il mio nome è Raffaele Lorpio, ho sedici anni. Mio padre, volendo portare lustro alla famiglia, volle fare di me un servitore del signore e un uomo di intelletto. All’età di dodici anni fui ordinato chierico e iniziai a studiare, presso la biblioteca della sede vescovile e presso il convento di San Giuseppe fuori le mura. Io feci tutto per obbedienza, vedete, ma la mia natura non è mai stata quella di uno studioso. Perdoneranno le eccellenze vostre, a volte io stesso ho come il sospetto di essere solo un baggiano, e che i talenti che Nostro Signore mi ha donato, seppur ve ne sono, non hanno dimora nella mia testa.
Ma scusate, vedo che vi spazientite, proseguo.
Impiegai un anno intero per capire che non era necessario eccellere per stare lontano dalle bastonate. Padre Moffati fu il mio tutore e guida spirituale, uomo di lettere e di finissimo intelletto. Lo delusi più e più volte, riuscendo ad afferrare solo le basi del latino. Il buon uomo si disperò, mi redarguì, non ebbe il cuore di punirmi come avrei necessitato, e dopo un anno si arrese. Dopo due, le lezioni erano divenute un’abitudine e nulla più. Io non imparavo e lui mi leggeva Aristotele, i salmi, la parola di nostro Signore, ma più per celia, più per aver qualcosa di cui parlare. E non lo dico io, badate, lo diceva lui stesso.
Pensate… pensate che potreste andarlo a chiamare? Che potrebbe farmi visita?
Come dite? Mio padre? No. Non chiamate mio padre, ve ne prego.
Preferirei di no, ecco. I fatti di questi giorni mi hanno messo in cattiva luce, e non vorrei arrecare fastidi alla mia famiglia.
Sì eccellenza, proseguo. Dopo due anni di questa vita – ne avevo ormai quattordici – accadde un fatto importante. Il vostro predecessore, il vescovo Mistragni, arrivò in città. Era stato costretto dal Gran Concilio, come sapete, a lasciare la sua villa di Roma e a trasferirsi qui, presso la nostra diocesi, che poi era anche la sua. L’arrivo del vescovo fu un grande evento per noi, la carovana pareva non dovesse mai terminare, vennero carro dopo carro di mobili, vivande, forzieri, servitori, artigiani, bestiame, donne bellissime e voliere piene di uccelli variopinti che lanciavano i più incredibili richiami, nervosi per il viaggio e l’orizzonte sconosciuto. Tutta la città era contagiata dalla novità, un fornaio fece un pane speciale, arricciolato, che doveva ricordare il pastorale del vescovo, e presto tutti quanti nelle case iniziarono a impastare lo stesso pane, tanto che ancora adesso per le feste comandate –
Scusate, eccellenza. Mi dilungo. Ma ve lo dico perché c’è un senso, che quando siete arrivato voi le cose sono state diverse, non c’è stata festa, ma non pensate che il popolo non vi vuole bene, siete già considerato un bravissimo vescovo, come non ne abbiamo avuti da tanto tempo, e uomo saggio, e –
Scusate ancora, eccellenza. Me lo dice sempre padre Moffati che vago come gli uccellini tra gli alberi senza sapere come concludere. Vi dicevo della festa. Io ero abbastanza libero, avevo di che mangiare e dovevo fare poche ore di istruzione, per cui iniziai a girare per la corte del vescovo Mistragni. C’era sempre qualcosa da fare, e si sapeva chi ero e chi era mio padre, e insomma potevo muovermi e conoscere le persone. Iniziai a fare dei lavoretti, a rendermi utile, conobbi un po’ quel mondo, che per me era un mistero. Scoprii che in quella corte non serviva essere uomo di scienza, o di arti, per guadagnare il favore degli uomini, e specialmente delle donne. Se posso parlarvi con franchezza, era un ambiente di persone stanche, tutti annoiati dalla vita poco avventurosa che si fa qui da noi. Anche il vescovo, quando lo incontrai, mi diede subito quest’impressione: un brav’uomo, un servo di Dio, che sbadigliava.
Fatto sta che a corte ogni motivo di distrazione veniva bene accolto, e io mi prodigavo per dare il mio aiuto come potevo. Ho anche provato a comporre dei versi, con l’aiuto di padre Moffati, che un po’ disapprovava, ma alla fine si vedeva che era si divertiva. Scrivemmo un inno a Giovanni Battista, che la sua storia mi era rimasta impressa e –
Sì, scusate, eccellenza. Fatto sta che mi sorpresero mentre fornicavo con Lauretta, che era una delle amanti del vescovo. Fu un bel guaio, e si parlava di mandarmi via, nel senso di proprio espellermi dalla città, ma dove mai potevo andare, che non ho mai viaggiato e non conosco il francese? Comunque, intervenne mio padre – credo a malincuore, e non per me, ma per il buon nome della famiglia – e non so come riuscì a convincere il vescovo a non calcare la mano sulla mia giusta punizione, per non ricevere infamia. Credo che abbia donato dei terreni, o dei diritti d’uso, non so di preciso. Ricordo bene che mio padre in quell’occasione venne da me, non ci parlavamo quasi mai, venne da me e mi riempì di botte, me ne diede tante, ma tante, e io non potevo fare niente e mi dispiaceva dirgli che le sue botte non facevano male, che doveva essere stanco o vecchio o malfermo, e piansi di pentimento e mio padre lo capì. Lo capì nel senso che capì che non mi stava facendo molto male, e allora mi fece picchiare dallo stalliere, che aveva certe manone.
Mi venne data una bella ripassata e quando mi ripresi scoprii che ero stato assegnato alla custodia dell’eremita nudo. Era un modo per cavarmi dai guai, lo capisco, e per salvare il buon nome. Questo avveniva un anno e mezzo fa. Da allora non ho mai abbandonato la casa dell’eremita, se non adesso, che son qui con voi.
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