Questo posto è la capitale di una nazione che ha normalizzato la convivenza con un parassita cerebrale, ma purtroppo l’ho visitata male e nervosamente: ad ogni svolta mi aspettavo una trappola della dama vestita di lilla, ogni faccia poteva nascondere un nemico. La paura, soppressa per impedire di influenzare la mia capacità di osservazione, si è trasformata in paranoia. È un cambio di passo che accolgo con una certa curiosità. Il primo effetto è stato quello di permettermi uno stato di concentrazione che non ritenevo possibile. È però stato molto faticoso, e temo ci saranno altre ripercussioni. Sono comunque riuscito a compilare un resoconto.
Gli abitanti di questo posto sono creature antropomorfe di discendenza, credo, mammifera, anche se non primate. La struttura del loro volto è sproporzionata rispetto ad un umano standard, hanno occhi molto grandi e quasi niente naso. Tutti gli adulti hanno un bozzo in mezzo alla fronte, alcuni piccoli come noci, altri grandi come arance. Spesso il bozzo, nella parte apicale, assume colori molto accesi: arancioni, soprattutto, ma anche marroni e rossi. È il parassita.
A quanto ho letto nelle cronache la popolazione di questo posto ha rischiato di estinguersi all’arrivo delle spore del parassita, che hanno subito iniziato a colonizzare le scatole craniche. È una dinamica nota: un fungo parassita che lentamente prende il controllo dell’ospite e lo induce a pattern di comportamento molto specifici, volti ad assicurare il completamento del ciclo riproduttivo del parassita stesso. In questo caso la vittima, dopo un periodo di incubazione di sei-otto settimane, prova il fortissimo impulso a mangiare carciofi, stendersi sulla spiaggia e gridare sguaiatamente per ore, fino a morire per disidratazione o, se sorpreso dalla marea, annegato. Ci deve essere una qualche ragione biologica, che non ho indagato. L’origine del parassita è misteriosa, forse addirittura interpostale. Non ho indagato.
La popolazione era, all’epoca del primo contatto, ad un livello tecnologico sufficiente per rendersi conto dell’infezione, ma non abbastanza evoluto da eliminarla. Il parassita li ha quasi del tutto spazzati via, lasciando in giro solo gli individui naturalmente più resistenti. Simmetricamente, anche le fila del parassita si sono molto ridotte, avendo consumato e distrutto quasi tutti gli ospiti a disposizione. Lentamente la coevoluzione delle due specie li ha portati ad una qualche convivenza: il parassita è diventato meno aggressivo nel suo decorso, e la popolazione ha sviluppato una tolleranza sempre maggiore. Col tempo, il parassitismo si è trasformato in simbiosi. Con l’allungarsi del periodo di permanenza il benessere dell’organismo ospite è diventato intrinsecamente legato al benessere del parassita, che ha iniziato a influenzare i comportamenti dell’ospite in maniera più sottile. Gli indigeni hanno iniziato a sentire ogni tanto il desiderio di fare attività fisica, o di mantenere una dieta bilanciata, o di lavarsi i denti. Quando arriva al momento di riprodursi il parassita prende comunque il controllo dell’individuo e ne causa comunque la morte (carciofi, spiaggia, grida), ma fino alla fine si assicura che l’ospite sia sano, attivo, e perfettamente manutenuto. E dato che il bene della specie è il bene dell’individuo, il parassita spinge il proprio ospite ad essere sessualmente attivo e riprodursi.
Ho scambiato un breve dialogo con una femmina della specie, che mi ha parlato mantenendo uno sguardo vacuo:
“Qual è la città più grande qua attorno?”
“È <nome della città, che ho dimenticato>, non molto lontano”
“È una bella città? Merita di essere visitata?”
“Non lo so, non ci sono mai stata.”
“Da quanto tempo vivi qui?”
“Da sempre.”
“Quanti anni hai?”
“Ventitré.”
“Cosa fai nel tempo libero?”
“Cerco di mantenermi sana.”
Nel complesso gli indigeni mi sono parsi piuttosto noiosi ma in perfetta salute.
AZIONE CONSIGLIATA: isolamento.
NOTA: ho prelevato un campione di spore.