Questo posto è un galeone alla deriva su un oceano elettrico. Appaio a prua e sono subito abbacinato dalla chiarissima violenza del mare: è un tumulto di scariche elettriche, fulmini e scintille, c’è molto rumore, continui boati da tutte le direzioni, una battaglia disordinata con la barca proprio in mezzo che beccheggia ubriaca e riesce a non farsi divorare dalla furia elementale, in qualche modo. L’aria è satura di ozono e mi irrita la gola, ho la bocca acida e gli occhi appannati. Cerco riparo e mi guardo attorno: il ponte è spoglio, le vele strappate o ammainate, sul castello di prora il timone è legato. Non c’è nessuno. La nave ondeggia con violenza e il parapetto si avvicina pericolosamente al livello del mare: imbarchiamo, e un fulmine sorvola la prua, mi sfiora e si schianta sull’albero maestro, lascia una bruciatura fumante. Il ponte non è un sicuro, sto rischiando. Il mare luminosissimo e accecante, il cielo arrabbiato, non c’è terra all’orizzonte, devo trovare riparo. Provo a spostarmi reggendomi a forza di braccia, il pavimento mi balla sotto, crollo a terra e sbatto le ginocchia, imbarchiamo un’altra saetta che mi passa sopra la testa: l’esplosione del tuono mi stordisce e le orecchie iniziano a fischiare. Mi trascino, stordito, raggiungo una fessura sul pavimento del ponte, e attraverso di essa incrocio lo sguardo di due occhi spaventati. C’è qualcuno sottocoperta.
Trovo una botola, chiusa, grido e busso, e attraverso il fragore dei tuoni sento che qualcuno sotto mi grida di rimando, ma è impossibile capirsi: grido ancora, imploro aiuto, prendo a pugni la botola, ma è tutto inutile, non mi aprono. Imbarchiamo un altro fulmine, che schianta e spezza un pennone. Il mozzicone di trave mi crolla a fianco e io lo afferro e lo uso come ariete sulla botola. In un momento di rara calma del mare sento che da sottocoperta vengono diverse voci, forse litigano, non capisco, c’è troppo rumore. Continuo a battere, non ho intenzione di morire su questo ponte, non voglio usare la Vertigine, voglio solo andare sottocoperta: non so perché ma è importante venire accettato, vincere le resistenze dei marinai e convincerli ad accogliermi, e voglio farlo come un locale. La posta in gioco è alta. Sollevo il legno sopra la mia testa e colpisco, ancora e ancora, e finalmente sento che qualcosa inizia a cedere. Poi la botola si spalanca e da sottocoperta parte un arpione, mi si conficca nella spalla e per l’impatto rotolo indietro. Il dolore è tremendo e peggiora ancora quando mi sento tirare: l’arpione è legato a una corda e questi stronzi mi stanno tirando dentro come se fossi un pesce. La spalla è una fornace, mi azzardo a muovere il braccio e divento cieco dal dolore, mi afferro debolmente con la mano sana ad un paio di sporgenze ma non riesco a fare presa. I marinai danno un altro strattone e mi tirano dentro: vedo un paio di facce sporche, poi perdo i sensi.
Il mio corpo è resistente ben oltre le capacità dei nativi incontrati finora. Lo so. Mi è necessario, nessuno viaggia con dei vestiti delicati, e io sono stato progettato per il viaggio, per esplorare posti difficili, inospitali, pericolosi. Dico questo per dare una misura del dolore. Sono già stato ferito. Il mio mezzo mi guarisce, mentre dormo attraversando l’interposto fino all’inizio della ricognizione successiva. Non è un problema. Prima d’ora ho sempre affrontato il dolore come un fastidio, come una procedura burocratica necessaria che va in qualche modo affrontata: il corpo viene danneggiato, il corpo si ripara. Prima d’ora non ero mai stato torturato.
I marinai sono quattro. La mia coscienza va e viene, persa in una nebbia pastosa che si mangia i dettagli. Sono legato su una cassa. Due di loro mi gridano in faccia, hanno gli occhi allucinati, uno mi tiene un coltello in bocca, contro il palato, sento il sapore del sangue. Ne ho perso parecchio, di sangue: lancio un’occhiata alla spalla ferita ed è un disastro, l’arpione è stato strappato malamente, un brandello di pelle e muscolo penzola, piuttosto triste. Il tipo del coltello me lo infila tra gli incisivi e continua a gridarmi qualcosa, ma nell’intontimento del dolore e con la tempesta elettrica che infuria sento solo pezzettini di parole: -mpio, -aclis-, -zzarti, -iglie-.
Gli altri due marinai sembrano un po’ meno assetati di sangue. Uno si tiene in disparte e fa di tutto per non guardarmi. L’altro ha gli occhi fissi sul branditore di coltello, pensa che il suo compagno abbia esagerato, che stia esagerando. Ha paura e non sa cosa fare. Il secondo torturatore ha gli occhi porcini e le labbra serrata. Sembra impaziente di potersi dare anche lui da fare, aspetta il suo turno con gioia. La mia coscienza si allontana. Agogno il tepore lenitivo del mio mezzo. Non posso ancora andarmene, non ho basi per formulare un giudizio. Non so per quanto sono stato svenuto. Uomo-coltello si fa un po’ da parte e occhi-porcini mi mette malamente le mani nella ferita, torcendo. Questo mi sveglia per bene: un fulmine, in tutto simile a quelli che ballano fuori dalla nave, mi entra nella spalla e mi rimbalza dentro: occhi, ginocchia, inguine, denti, dita e poi di nuovo spalla. Grido come un animale, accecato, e continuo a gridare, mi strappo la gola e produco dei suoni mugolanti, primigeni, disarticolati. Sono una vittima.
Apro gli occhi e l’ammutinamento si è consumato: occhi-porcini giace a terra, una macchia di sangue che si allarga rapidamente dalla sua nuca, lo spaventato ha in mano un bastone e sulla cima del bastone c’è un grumo di cute umana, piuttosto lucida. Il branditore di coltello lo guarda, alienato. Nessuno si muove, tutti ondeggiamo con la nave.
AZIONE CONSIGLIATA: annessione. Non posso e non voglio provare rancore.