Questo posto è uno sterminato ristorante. Ci arrivi attraverso un sistema di gallerie e ascensori, ed il modo con cui accedi alla sala ti dice già che tipo di cliente sarai. Io sono spuntato da una botola tonda, come un tombino, e mi ha accolto l’odore del cavolo bollito. Attorno a me c’è povera gente, piuttosto magra, qualcuno proprio lasciato andare, tanti altri con le facce pulite e l’aspetto dignitoso, ma poveri, irrimediabilmente poveri. Fanno la fila per arrivare alla mensa, dove due inservienti grassi e imbronciati servono una zuppa grigia e stracotta. La gente si accalca con disordine, tutti parlano e qualcuno litiga, soprattutto per piccole cose: il sale, la sedia, il bicchiere. Quando i litigi diventano accesi gli altri commensali intervengono, cercano di separare le fazioni, si mettono a chiamare aiuto. Lentamente, con molto ritardo, arriva un poliziotto: controllo sommario, ramanzina, poi se ne va. I poliziotti non sembrano messi molto meglio degli avventori, hanno delle macchie di cavolo sulla divisa e i pantaloni sgualciti. Soprattutto, hanno lo stesso sguardo apatico.
Camminando per la mensa mi colpisce l’omogeneità: il cibo viene distribuito a isole, e attorno alle isole si forma la calca. Lontano dalle isole ci sono i tavoli, sottili e malfermi, raramente coperti da una tovaglia di carta velina, più spesso nudi e unti. La gente mangia e, da quel che sento, si lamenta del cibo, ma poi fa poco altro.
Arrivato all’undicesima isola ho cercato di capire se ci fosse una qualche soluzione di continuità e sono salito in piedi su una sedia, e poi su un tavolo, per guardarmi attorno: il colpo d’occhio è notevole, una massa disordinata e sterminata, bocche e piatti e tintinnare di stoviglie e chiacchiere in ogni direzione. Ma guardando con attenzione si capisce che non è solo quello. C’è come un gradiente, una sottile variazione che però si può intercettare: cambia il colore. La zona dove sono arrivato è dominata dal grigio e dal marrone smorto, cibo, tavoli, vestiti, pavimento, tutto si mescola e contribuisce al tono dell’ambiente. Ma verso l’orizzonte della sala infinita le cose si evolvono. Mi incammino ed esploro.
Il primo cambiamento è olfattivo: sono accolto dallo sfrigolare della carne sulla piastra. All’inizio è flebile, ma dopo aver passato pentole e pentole di cavoli bolliti mi attira inesorabile. L’isola della griglia è circondata da una folla che guarda ipnotizzata la carne maturare: rosso, rosa acceso, rosa pallido, marroncino. Quando cominciano ad apparire i primi angoli ben arrostiti tutti, all’unisono, deglutiscono. Gli astanti si tengono a distanza, però, e sono pochi quelli che davvero portano il proprio piatto e ritirano la bistecca. Noto che la qualità delle stoviglie è migliorata, e compaiono i primi coltelli, inutili nel regno della zuppa.
Tra il gradiente cromatico e quello olfattivo mi pare di intercettare una direzione e mi muovo ora più spedito. Presto anche attenzione alle persone, c’è un po’ più cura per il vestiario, qualche vezzo, qualche sprazzo di colore. Avanzo ancora e le cose migliorano sensibilmente, e fa la sua prima comparsa un cameriere carico di piatti. Ora i tavoli sono propriamente preparati, anche se con grande semplicità. Ci sono tovaglie, tovaglioli e stoviglie coordinate. Anche i cuochi hanno cambiato atteggiamento, e sembrano forse non proprio entusiasti, ma almeno non proprio disgustati. Le pietanze sono ancora preparate in massa, e tutti ricevono lo stesso cibo, ma inizia un accenno di divisione in portate: un po’ di affettato, purè, pasta, carne. Le persone chiacchierano e paiono rilassate, anche se molto stanche. Scoppia qualche risata, i bambini giocano a gruppetti e vengono rimbrottati bonariamente se esagerano con il rumore. Due innamorati si guardano languidi, ed un poliziotto passa sorridendo, mentre tutti lo salutano.
Salto ancora su un tavolo, questa volta suscitando non pochi sguardi perplessi, cerco e trovo il gradiente e mi avvio spedito. Il primo cambiamento avviene nel tessuto delle tovaglie: si fa fine, leggero, ricamato. Le stoviglie brillano, la posateria si moltiplica. Anche i camerieri cambiano, si fanno impettiti, compassati, leccatissimi. Gli avventori sono quasi indistinguibili dai precedenti, se non statisticamente: più omogenei nell’eleganza standardizzata, è un tripudio di tailleur e cravatte regimental, di orologi sportivi e giri di perle. Consultano tutti il menu allo stesso modo, indicano con gli stessi indici, mostrano la pietanza al cameriere inclinandosi alla stessa maniera. I cuochi sono indaffarati, tesi nell’atto performativo, le isole culinarie sono come formicai organizzatissimi, c’è una grande aria di professionalità. Non vedo poliziotti, ma incrocio almeno quattro pattuglie di guardie giurate, petto in fuori e occhiali scuri, che si impegnano tantissimo a sembrare cattivi. Mi assale un leggero senso di nausea, e cerco di andarmene, cosa che non risulta facile dato che appena salgo su una sedia – neanche ancora su un tavolo – vengo subito additato, gli occhi roteano scandalizzati, e le guardie sopraggiungono solerti. Procedo così per un po’, alternando tentativi di osservazione a mezze fughe, e riesco in qualche modo ad intercettare un nuovo gradiente. Il primo solido indizio mi viene dai piatti: sono diventati quadrati.
La nuova area è dominata dai nasi: affilati, all’insù, smaccatamente rifatti o aggressivamente arricciati, i nasi mi dicono che il ristorante è frequentato per convenzione, non certo per fame, ma neanche per il piacere di mangiare. Ogni tavolo ha almeno due camerieri, gentili e premurosi, che anticipano ogni bisogno degli avventori e sembrano davvero felici di prendersi cura della clientela. I cuochi, nelle isole, si muovono con movimenti ampi, teatrali, studiati per sorprendere e suscitare ammirazione. I bancali di ingredienti sono fornitissimi e coloratissimi, e quando non sono usati vengono messi sotto chiave. La polizia è presente ai tavoli, dove vedo un generale e due colonnelli, in uniforme, che chiacchierano sorridendo con una donna bellissima, che tiene banco ridendo. Le pietanze sono elaborate, le porzioni scarse. Io mi porto ancora dietro il sottile odore di cavolo, e vengo spesso occhieggiato, un paio di volte mi scambiano per un inserviente e alla fine vengo direttamente approcciato da una pattuglia di poliziotti armati: “qui non può stare, la accompagniamo fuori, venga con noi”.
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