Questo posto è sottoterra. La catastrofe che ha costretto la popolazione a nascondersi è raccontata nei dettagli, ma i dettagli non collimano e sono pieni di contraddizioni. Non è chiaro se i nativi siano i discendenti dei responsabili del disastro o siano solo delle povere vittime. Immagino non faccia molta differenza a questo punto.
È un posto claustrofobico, fatto di tunnel e stretti passaggi scavati in una roccia verdastra e oleosa, con l’aria stantia e un costante odore di muffa. C’è gente dappertutto, spostarsi vuol dire sfiorare e strisciare e qualche volta proprio spingere. È gente di tutte le età, vestiti di poco, tutti rachitici e bianchicci, con i denti che iniziano a cadere a quindici anni e le speranze di vita che non superano i quaranta. Vivono faticosamente, affamati di elettricità e sotto le costanti luci alogene. I mestieri più diffusi paiono essere il coltivatore di mucillagine, l’aggiustatore di cianfrusaglie e, naturalmente, il minatore.
“Questa è un’area ricca” mi dice Fark, appoggiato ad un piccone fatto attaccando un cartello stradale al manico di una chitarra “si trova di tutto, basta scavare. Guarda qua, solo stamattina guarda cosa ti ho trovato” mi mostra orgoglioso tre dinosauri di plastica “questi sono deliziosi. Due ore di ammollo nell’acquaragia, poi scolare, triturare, mescolare con sali di ammonio e lasciare riposare per un giorno. Si formano certi cristalli azzurri che non sono buoni da mangiare, anzi sono proprio velenosi: tu quelli prendi e li butti. Ma quel che resta, mmmmmmmm! Quel che resta! Una roba da superficie, te lo dico io”.
L’idea di un mondo di spazi aperti è ben piantata nella mente dei nativi, e all’inizio non capivo perché. Aria fresca, luce e ampi spazi: io ne ho subito sentito la mancanza, appena arrivato, ma loro? Loro qui ci sono nati, e non hanno mai conosciuto niente di diverso. Eppure si lamentano di continuo, tutti parlano dei bei tempi andati e della catastrofe, anche se sono cose successe prima della nascita dei nonni dei loro nonni, e tutti si comportano come se si aspettassero di poter vivere in grandissimi spazi vuoti, poi naturalmente non succede e sono tutti nervosi. Ho cercato di risalire alla sorgente della nostalgia, aspettandomi di scoprire un culto dell’odio e dell’amarezza, un qualche tipo di religione basata sul ricordo e sull’impossibilità di essere felici nel presente. Al più, qualche antica cronaca, eletta a testo sacro, canonicamente male interpretata. E invece niente, non un singolo sacerdote corrucciato, non una vecchia megera infelice, niente di niente. La straordinaria omogeneità dei racconti, dei motteggi, delle lamentele e dei sogni frustrati di un’intera popolazione mi parevano dover essere accettati come tali, senza autore né ragione unificante. Stavo per chiudere la ricognizione e tornare al mio mezzo, quando li ho visti: undici bambini che giocavano.
Dieci si tenevano per mano e formavano un cerchio ed il cerchio aveva come perno l’undicesimo. Tutti ruotavano: il perno in un senso, il cerchio nell’altro. Dopo giorni di calore e sudore e contatti umani inevitabili la vista di tutto quello spazio mi ha causato un moto d’invidia, il bambino al centro doveva stare benissimo e freschissimo, e i suoi dieci compagni erano davvero eroici a tenere fuori la fiumana di gente. Intanto la rotazione aumentava di velocità, e con la velocità è arrivata una filastrocca, semplice me efficace nelle immagini. Traduce male, ovviamente, ma è qualcosa su come “il piccolo <nome del bambino> correva dappertutto in un posto senza muri” ed era molto felice. La narrativa dettaglia su come ci fossero aria e acqua fresche e tanto spazio per ogni famiglia. Poi devia sul tragico, entra in scena qualcosa di grosso che arriva ed insegue, il piccolo prova a scappare dappertutto ma in quel posto senza muri ma c’è dove nascondersi, la minaccia si fa sempre più incombente fino a quando, prevedibilmente, il bambino decide di rintanarsi sottoterra. A quel punto i compagni di gioco corrono verso il centro e ci si schiantano con violenza disordinata: dalla zuffa esce un vincitore, che sarà al centro al prossimo giro. Poi il gioco ricomincia.
È una teoria un po’ azzardata, e non ho prove a riguardo, ma credo che sia la mitologia infantile a tenere viva la leggenda della superficie. D’altra parte non ho trovato nessuna traccia tangibile che ci sia stata una catastrofe. Per quel che ne so potrebbe proprio non esistere una superficie, ma da bambini imparano a sognarla e poi non smettono per tutta la vita.
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