Questo posto è una foresta di conifere, fredda, umida e inospitale.
Cammino nel fango, su un sentiero largo ma invaso dalla vegetazione, che
cresce dappertutto. Ci deve essere stato un temporale di recente, trovo
molti rami spezzati sul cammino, ed un paio di volte veri e propri
tronchi bloccano la strada. Non c’è anima viva, non ci sono animali, non
ci sono insetti. Solo alberi tenaci, uno dietro l’altro, a perdita
d’occhio. Il cielo è una tavola bianca che promette neve. Ogni tanto una
raffica di vento spazza tutto e sento le piante frusciare. Non sono
preparato a tanto freddo e rabbrividisco. Avanzare è una questione
penosa, e lo faccio perché devo: vorrei fermarmi, vorrei andarmene,
vorrei più di tutti un posto caldo. Ma un’ora di cammino senza
incontrare anima viva non si qualifica come esplorazione, ed il mio
rapporto risulterebbe carente. Sto percorrendo un sentiero, mi dico che
per forza deve portare da qualche parte. Mentre proseguo in silenzio
divento consapevole della realtà attorno a me: la foresta è viva e
combatte le sue battaglie, gli alberi gareggiano per la luce ed il
terreno, ci sono soprusi, atti di cannibalismo, infanticidi e assassini.
Non ci sono mai: vendette, tradimenti, atti di pietà. La lotta
fratricida degli alberi è sempre onesta e diretta, scevra da ogni
considerazione morale. È lentissima, e per questo inafferrabile, ma se
riportata sul mio normale piano temporale mi apparirebbe in tutta la sua
cruda violenza. Mi sento fortunato, benedetto da questo incontro.
“Chi sei?”
La
voce mi coglie di sorpresa. È molto roca. Viene dalla mia destra, fuori
dal sentiero. In mezzo agli alberi c’è un uomo, coperto di sterpi,
scarmigliato, sporco, scalzo. Ha una barba molto lunga, del colore del
fango, da cui spuntano rametti e aghi di pino. Indossa dei cenci
indefinibili, dai cui strappi crescono germogli. I suoi occhi mi paiono
enormi. Non so come ho fatto a non vederlo, ma lo stavo superando. È a
pochi metri da me.
“Sono… il mio nome è Thunderwizard Totalpunch, sono un viaggiatore.”
“Cosa vuoi?”
“Visitare questo posto.”
L’uomo assume un’aria interrogativa e col braccio indica un ampio cerchio attorno a me.
“Sì, la foresta. Non ne avevo mai viste di così.”
Mi fa un cenno affermativo con la testa, come se sapesse cosa intendo. Interessante, dato che non lo so di preciso nemmeno io.
“Quanto ti fermerai?”
“Non lo so ancora. Non ho cibo, e fa freddo, però mi piace qui.”
“La foresta non sopporta la vita animale. Cercherà di ucciderti.”
“Però tu vieni sopportato.”
Per
la prima volta sorride, obliquo, in effetti un po’ inumano. “A
malapena.” Noto ora le unghie: scure, coperte di fango, e dal fango
spuntano germogli.
“Da quanto tempo vivi qui?”
“Tempo.” Scuote la testa. “La foresta conta il tempo a modo suo, e io con lei. Non so rispondere.”
“Ci sono altri come te?”
“Sì. Pochi. Lontani. La foresta non ama i branchi.”
Ho
la sensazione che l’uomo sia genuinamente felice di poter parlare con
un altro essere umano, ma anche nervoso per il fatto stesso di stare
indulgendo in un comportamento così marcatamente animalesco. Forse la
foresta lo tiene sotto stretta osservazione.
“Tu e i tuoi… tu e gli altri come te: cosa fate?”
“Servitori. Ubbidiamo. Proteggiamo.”
“La foresta ha dei nemici?”
“A volte. Esterni.”
“Esterni? Gente che viene da altre terre, da altri paesi?”
“Gente come te. Esterni.”
Viaggiatori interpostali, quindi. “E cosa vogliono gli esterni?”
“Cambiamento. La foresta non ama il cambiamento. La foresta -”
Poi
si interrompe e comincia a lanciare occhiate in giro, nervosamente. Non
voglio inimicarmelo e provo a tacere, cercando di essere il meno
animale possibile. Cala il silenzio tra di noi, e l’uomo fissa la sua
attenzione su un punto lontano, da cui viene chissà quale richiamo che
io non riesco a cogliere. Dopo quasi un minuto di immobilità si muove
d’improvviso, salta sul sentiero ed inizia a correre nella direzione da
cui provengo. Decido di seguirlo ma gli sto dietro a fatica: ha un passo
inelegante, perde rami e terriccio, eppure si muove a grande velocità, e
continua ad accelerare. Mi distanzia, supera una curva, poi un’altra: è
sparito.
Io sono in affanno sulla strada infangata, dolorosamente
consapevole di essere allo scoperto: mi aspetto dei nemici dietro ad
ogni albero, invisibili come lo era lui. Corro finché riesco, poi
cammino, poi mi fermo col fiatone. La foresta è tornata al silenzio
primigeno. Non c’è nulla nell’aria: non odio, non ansia, non cattiveria.
Le emozioni sono appannaggio animale, e anche se è scattato un allarme
la foresta non si lascia turbare. O forse non vuole darlo a vedere a me.
Gli alberi fanno il loro fruscio, mossi dal vento.
Continuo a
camminare senza incontrare anima viva, sto tornando indietro sui miei
passi, ho la sensazione che tutto questo centri con il mio arrivo in
questo posto. Sono quasi al punto esatto del mio arrivo in questo posto
quando trovo la battaglia, cristallizzata.
Un mezzo argenteo sta
venendo stritolato da pesanti radici che spuntano dal terreno. Non
riconosco la fattura, ma deve essere un trasporto.
Quattro umani
sono stati strappati. Indossavano delle tute pressurizzate, tre dei
caschi sono esplosi, ci sono loro pezzi dappertutto, sangue e budella
scuri sparpagliati sulla terra scura.
Un quinto uomo, la tuta
ancora intatta, ha le gambe completamente bloccate da viticci che
spuntano dal terreno. Sta cercando convulsamente di strapparseli e
scappare, mi giungono le sue imprecazioni attutite dal casco.
Davanti
a lui il guardiano della foresta si sta muovendo in maniera comicamente
lenta. Mezzo centimetro al secondo, sta spingendo una mano trasformata
in puntale ligneo verso il cuore dell’uomo.
In terra un
dispositivo per il controllo temporale, identico a quello che ho
raccolto durante la ricognizione 7. Deve essere stato attivato come
estrema difesa, per ripararsi dall’attacco dei nativi.
Il quinto
uomo incrocia il mio sguardo ed è disperato, inizia a sbracciarsi verso
la mia direzione e mi chiama e mi pare dica qualcosa. Calcolo manchi
meno di un minuto prima che il guardiano lo trafigga.
Entro nella
scena, raccolgo un bastone appuntito, mi avvicino al quinto uomo, foro
la sua tuta pressurizzata, il gas esce come da un palloncino e l’uomo è
terrorizzato e io infilo un dito dentro, tocco pelle su pelle e torno
sul mio mezzo, portandomelo dietro.
AZIONE CONSIGLIATA: annessione, con possibilità di trattare con l’intelligenza vegetale.
NOTA: l’uomo è attualmente mio prigioniero, ho intenzione di interrogarlo prima della prossima spedizione.