Questo posto è dominato da un mare furioso. Gli insediamenti sorgono su isole frustate dai flutti, l’agricoltura è quasi assente, e pare che non ci si nutra che di pesce. Tutti navigano, e tutti, senza distinzione di sesso, età o censo, tutti non fanno che lamentarsi del mare. Imprevedibile, cattivo, mosso quando lo si vorrebbe fermo, piatto quando servirebbe vento. Troppo salato, corrode le chiglie. Troppo pescoso, abbassa i prezzi del pesce. Troppo freddo, ti fa male alle ossa. Dopo sei mesi di pernottamenti in locande impregnate dall’odore dell’olio di balena decido di indagare più a fondo: come è possibile che la gente si lamenti costantemente? Non hanno termini di paragone, ne sono certo: nessuno ha mai navigato in mari migliori, né si è mai steso su spiagge facili e accoglienti. Lo so, è un mondo piccolo e ci ho messo poco a fare il giro. Gli autoctoni dovrebbero semplicemente essere abituati. Senza coscienza di un mondo alternativo, dovrebbero vivere in pace con la natura che è loro toccata in sorte. E invece no, sognano altro, vogliono altro, e questo altro li tormenta. Per risolvere il mistero ho dovuto usare un po’ di Vertigine.
Ho usato la Vertigine. Lo specifico perché: A) era un po’ che non succedeva e B) la sto finendo, anche se non so stabilire con precisione quanta me ne resti. È, in effetti, un problema. Non poter inventariare le scorte mi mette a disagio, ho paura di trovarmi a secco e nei guai. So che è normale che la strumentazione faccia i capricci così lontani dai confini e con tutte le interferenze che incontro. Mi limito nell’uso, il più possibile, ma capitano posti – come questo – dove senza Vertigine dovrei abortire la missione.
Mi sono permesso questa piccola divagazione nel rapporto per fugare ogni dubbio nel caso che il mio cadavere venga un giorno ripescato da una squadra di coloni mentre fluttua nell’interposto. O anche solo per sfogarmi. Mi manca un po’ casa.
Convintomi che non avrei trovato la soluzione tra i porti e le navi di questo posto, mi decido ad usare la Vertigine e ad avventurarmi dove nessuno dei marinai ha accesso: esploro le profondità dei mari. Cerco cose grosse: un dio sepolto, una civiltà subacquea, rovine sprofondate di antichissime città. Trovo, invece un pittore. Un pittore da stereotipo, con tanto di cavalletto, tavolozza e basco. Se ne sta tranquillo, sul fondo di una baia non troppo agitata. Mi confesserà di averci messo molto a trovare quella precisa posizione, dove finalmente le correnti non sollevano tutta la sabbia del fondo, che poi gli si appiccica ai colori appena stesi, dice. Solo che la chiama polvere, e le correnti le chiama venti.
Il pittore dipinge ciò che vede attorno a sé, ma il suo occhio gli racconta un’altra storia. I fondali diventano pianure, le alghe erba, gli agglomerati calcarei dolci colline, i banchi di pesci diventano uccelli che solcano un cielo azzurrissimo. Mi è subito chiaro che è lui la causa del malcontento. Dalle sue opere, ritratto falso di una realtà edulcorata, nasce il desiderio nei marinai per qualcosa che in effetti esiste, ma non nel loro mondo. Per approdare ai dolci mari tropicali dovrebbero poter uscire da questo posto, ma non possono: le loro navi sono troppo pesanti, le loro ancore ben incagliate, e la rotta è sconosciuta.
Mi pongo il problema etico di far smettere al pittore di inculcare sogni irrealizzabili ai marinai. Temo sia un essere piuttosto forte, un fantasma dalla volontà ferrea approdato qui dopo chissà quanta deriva nell’interposto. Il viaggio l’ha reso pazzo, o almeno un po’ tocco. Gli chiedo, oziosamente, come fa a respirare sott’acqua, e lui mi guarda stranito, senza capire. Dopo poco, salpo.
AZIONE CONSIGLIATA: annessione post depurazione.